“We here have been brutalised with loss; it has made us brutal in return. There is no going back from this moment.”
[ Vanessa Ives – Penny Dreadful ]
Se c’è una cosa che mi ha accompagnato per tutta la visione di The Martian è stata la certezza che qualcuno non sarebbe sopravvissuto al film. Magari Sean Bean – già mi immaginavo il suo personaggio stroncato da un infarto per la tensione di gestire la missione di recupero da Terra, giusto per non smentirsi. Tralasciando Matt Damon, la cui morte dopo un intero film su come farlo sopravvivere e riportarlo a casa sarebbe stata anticlimatica, ero certo che qualche membro dell’equipaggio non ce l’avrebbe fatta. Ero pronto a scommettere su Sebastian Stan, perché gli gnocchi che mi piacciono hanno vita breve e, soprattutto, perché è stato l’unico ad avere interazioni romantiche on screen: la tenerezzza con Kate Mara era un potenziale preludio a lui che finiva alla deriva nello spazio mentre tentava di ripescare Matt Damon e lei che restava da sola a piangerlo. Quando tutti, ma proprio tutti sono arrivati a fine film, mi è cascata la mascella.
Stessa cosa dicasi del finale di stagione di Supernatural, in cui mi aspettavo che Amara-The Darkness sarebbe morta malamente, probabilmente sacrificandosi per salvare suo fratello Chuck-Dio, dopo che si sono presi tutto il tempo per mostrare un lato inaspettatamente umano di quella che doveva essere la forza del male suprema. O prendiamo le reazioni a Captain America: Civil War: c’è gente che è rimasta sorpresa che non sia morto nessuno, né Cap come nei fumetti, né Bucky che era un ottimo candidato (povero Sebastian Stan!), né War Machine che ha fatto una caduta di qualche centinaio di metri. Tralasciando i paragoni con il fumetto e le morti che ci si aspettava da lì (persone, sul serio: film e fumetti sono due continuità diverse, fatevene una ragione), mi sorprende che il fatto che tutti gli Avengers & friends siano sopravvissuti sia un big deal.
Da qui la domanda: siamo davvero così abituati alla tragedia su schermo che a farci rimanere di sale è quando le cose vanno per il meglio?
Faccio una premessa: da una parte, ammetto che è la mia ignoranza cinematografica a parlare e spingermi a considerare analoghi due formati profondamente diversi – quello della serie tv e quello del film – semplicemente perché guardo entrambi svolgersi su uno schermo.
Una serie tv ha bisogno di uccidere dei personaggi, vuoi per ragioni off-screen (contratti, disponibilità, salute degli attori), vuoi per la lunghezza della storia, che esaurisce la funzione di certi personaggi o richiede la creazione di nuovi conflitti per andare avanti. Se guardi una serie tv, hai la certezza che prima o poi qualche personaggio a cui tieni morirà – e quando ciò avverrà, sarà devastante, perché il formato ti ha dato anni per affezionartici e non avrebbe senso farlo uscire di scena in una maniera non emozionante. Per cui, la mia percezione di una morte sempre in agguato sullo schermo è probabilmente influenzata dal fatto che guardo più serie tv che film, e magari nei film è un po’ meno comune.
C’è poi una certa parzialità di genere: cinematograficamente sono onnivoro e vado da film che più hipster non si può a blockbusteroni hollywoodiani, ma preferisco le storie con un sottotesto drammatico perché sono emotivamente più soddisfacenti; ovviamente, più dramma vuol dire più tragedie. Sulle serie tv la parzialità è ancora più evidente visto che, tralasciando serie come La Signora in Giallo e Poirot in cui l’omicidio è parte integrante della trama di ogni episodio, la cosa più vicina a una commedia che guardo è Scream Queens che, BEH.
Resta però il fatto che viviamo in un mondo in cui Game of Thrones è la serie di maggior successo degli ultimi tempi. E Thrones fa della tragedia sempre dietro l’angolo un caposaldo: nel momento in cui ci si concentra su un personaggio secondario, possiamo stare certi che morirà presto. E il modo più rapido per renderne la morte significativa è proprio investire emotivamente sul personaggio: vedesi Shireen Baratheon nella scorsa stagione. Thrones sta diventando un po’ la regola della fiction drammatica su schermo e ci ha talmente brutalizzati che ormai è quella che ci aspettiamo. Ed è vero, è un adattamento letterario e segue una trama molto sanguinaria, ma aggiunge molto di proprio.
Ma basta vedere le differenze fra uno Streghe e un Supernatural per notare come la fiction su schermo è progredita: premessa di base simile – una famiglia che lotta contro le forze del male – ma in Streghe, terminato nel 2006, la morte dell’innocente era l’eccezione in circostanze straordinarie, in Supernatural, iniziato l’anno prima, è molto più comune. Non parliamo poi di American Horror Story e Penny Dreadful, sanguinolenti per forza di cose, o perfino Doctor Who con i suoi eccidi una puntata sì e una no, mentre perfino una serie drammatica come Buffy si conservava le morti strappalacrime per momenti importanti.
Ormai, se non sto guardando una commedia, nel momento in cui a un personaggio secondario viene data una certa rilevanza mi preparo già a non affezionarmici perché probabilmente morirà e non voglio starci troppo male – soprattutto se è una sottotrama sentimentale. Porca miseria, perfino la Disney nel 2009 è riuscita a uccidere uno dei buoni in un film delle principesse (Ray in Princess And The Frog) senza che la cosa avesse un legame diretto con la trama!
Onestamente non so bene che conclusioni trarre da tutto ciò: di sicuro, la fiction che produciamo riflette la nostra società e bla bla, quindi è probabile che siamo davvero talmente rassegnati alla perdita da considerarla normale e onnipresente; pretendiamo realismo dai nostri racconti perché abbiamo rinunciato anche solo all’illusione di un lieto fine. O forse abbiamo talmente paura del dolore, emotivamente fragili come siamo diventati, che lo esorcizziamo in forma fittizia, come un veleno assunto a piccole dosi per immunizzarci – del resto, esocrizzare le paure è sempre stato uno degli scopi della narrativa. Cioè, c’è gente che si lamenta che, dopo una stagione di stragi, American Horror Story dà ai superstiti un lieto fine, in un modo o nell’altro: ragazzi, che problemi avete?
Personalmente, mi piace vedere un lieto fine, anche non agrodolce, ogni tanto. Anche se poi nella vita reale le cose non vanno mai davvero bene: almeno quel piccolo momento di felicità di seconda mano me lo godo volentieri.
Stessa cosa dicasi del finale di stagione di Supernatural, in cui mi aspettavo che Amara-The Darkness sarebbe morta malamente, probabilmente sacrificandosi per salvare suo fratello Chuck-Dio, dopo che si sono presi tutto il tempo per mostrare un lato inaspettatamente umano di quella che doveva essere la forza del male suprema. O prendiamo le reazioni a Captain America: Civil War: c’è gente che è rimasta sorpresa che non sia morto nessuno, né Cap come nei fumetti, né Bucky che era un ottimo candidato (povero Sebastian Stan!), né War Machine che ha fatto una caduta di qualche centinaio di metri. Tralasciando i paragoni con il fumetto e le morti che ci si aspettava da lì (persone, sul serio: film e fumetti sono due continuità diverse, fatevene una ragione), mi sorprende che il fatto che tutti gli Avengers & friends siano sopravvissuti sia un big deal.
Da qui la domanda: siamo davvero così abituati alla tragedia su schermo che a farci rimanere di sale è quando le cose vanno per il meglio?
Faccio una premessa: da una parte, ammetto che è la mia ignoranza cinematografica a parlare e spingermi a considerare analoghi due formati profondamente diversi – quello della serie tv e quello del film – semplicemente perché guardo entrambi svolgersi su uno schermo.
Una serie tv ha bisogno di uccidere dei personaggi, vuoi per ragioni off-screen (contratti, disponibilità, salute degli attori), vuoi per la lunghezza della storia, che esaurisce la funzione di certi personaggi o richiede la creazione di nuovi conflitti per andare avanti. Se guardi una serie tv, hai la certezza che prima o poi qualche personaggio a cui tieni morirà – e quando ciò avverrà, sarà devastante, perché il formato ti ha dato anni per affezionartici e non avrebbe senso farlo uscire di scena in una maniera non emozionante. Per cui, la mia percezione di una morte sempre in agguato sullo schermo è probabilmente influenzata dal fatto che guardo più serie tv che film, e magari nei film è un po’ meno comune.
C’è poi una certa parzialità di genere: cinematograficamente sono onnivoro e vado da film che più hipster non si può a blockbusteroni hollywoodiani, ma preferisco le storie con un sottotesto drammatico perché sono emotivamente più soddisfacenti; ovviamente, più dramma vuol dire più tragedie. Sulle serie tv la parzialità è ancora più evidente visto che, tralasciando serie come La Signora in Giallo e Poirot in cui l’omicidio è parte integrante della trama di ogni episodio, la cosa più vicina a una commedia che guardo è Scream Queens che, BEH.
Resta però il fatto che viviamo in un mondo in cui Game of Thrones è la serie di maggior successo degli ultimi tempi. E Thrones fa della tragedia sempre dietro l’angolo un caposaldo: nel momento in cui ci si concentra su un personaggio secondario, possiamo stare certi che morirà presto. E il modo più rapido per renderne la morte significativa è proprio investire emotivamente sul personaggio: vedesi Shireen Baratheon nella scorsa stagione. Thrones sta diventando un po’ la regola della fiction drammatica su schermo e ci ha talmente brutalizzati che ormai è quella che ci aspettiamo. Ed è vero, è un adattamento letterario e segue una trama molto sanguinaria, ma aggiunge molto di proprio.
Ma basta vedere le differenze fra uno Streghe e un Supernatural per notare come la fiction su schermo è progredita: premessa di base simile – una famiglia che lotta contro le forze del male – ma in Streghe, terminato nel 2006, la morte dell’innocente era l’eccezione in circostanze straordinarie, in Supernatural, iniziato l’anno prima, è molto più comune. Non parliamo poi di American Horror Story e Penny Dreadful, sanguinolenti per forza di cose, o perfino Doctor Who con i suoi eccidi una puntata sì e una no, mentre perfino una serie drammatica come Buffy si conservava le morti strappalacrime per momenti importanti.
Ormai, se non sto guardando una commedia, nel momento in cui a un personaggio secondario viene data una certa rilevanza mi preparo già a non affezionarmici perché probabilmente morirà e non voglio starci troppo male – soprattutto se è una sottotrama sentimentale. Porca miseria, perfino la Disney nel 2009 è riuscita a uccidere uno dei buoni in un film delle principesse (Ray in Princess And The Frog) senza che la cosa avesse un legame diretto con la trama!
Onestamente non so bene che conclusioni trarre da tutto ciò: di sicuro, la fiction che produciamo riflette la nostra società e bla bla, quindi è probabile che siamo davvero talmente rassegnati alla perdita da considerarla normale e onnipresente; pretendiamo realismo dai nostri racconti perché abbiamo rinunciato anche solo all’illusione di un lieto fine. O forse abbiamo talmente paura del dolore, emotivamente fragili come siamo diventati, che lo esorcizziamo in forma fittizia, come un veleno assunto a piccole dosi per immunizzarci – del resto, esocrizzare le paure è sempre stato uno degli scopi della narrativa. Cioè, c’è gente che si lamenta che, dopo una stagione di stragi, American Horror Story dà ai superstiti un lieto fine, in un modo o nell’altro: ragazzi, che problemi avete?
Personalmente, mi piace vedere un lieto fine, anche non agrodolce, ogni tanto. Anche se poi nella vita reale le cose non vanno mai davvero bene: almeno quel piccolo momento di felicità di seconda mano me lo godo volentieri.
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