Wednesday 8 January 2014

Per amore di una gatta

In questi giorni si fa un gran parlare di animalismo, diritti degli animali, crudeltà ed eticità o meno della ricerca, i botti di fine anno che sono un ever green, veganesimo ed eticità della dieta onnivora e quant’altro, trascinati probabilmente dall’esplosione del caso di Caterina Simonsen e del polverone mediatico che ne è derivato.
Finora ho partecipato in maniera un po’ marginale alla cosa, principalmente pubblicando stati pungenti o condividendo link sarcastici, ma credo sia arrivato il momento dire la mia in maniera seria e ragionata, per una volta.

Partiamo da un presupposto fondamentale: io odio buona parte dell’umanità. Parlando in astratto, la gente mi dà fastidio, non amo averci a che fare, quando qualcuno mi pesta i piedi faccio di tutto per rendergli la vita un inferno e in generale mi frega poco di chiunque non sia un mio amico stretto.
D’altra parte, amo gli animali. Adoro (a piccole dosi) stare in mezzo alla natura, scelgo di evitare i cosmetici testati sugli animali, sono a favore di una legiferazione che regoli il trattamento degli animali da allevamento e non considero la caccia un’attività ludica costruttiva.
Però accidenti, ciò non mi impedisce di usare il cervello.

Ora, come ho già scritto, ho una gatta di sedici anni malata di tumore. Io penso di aver raramente amato quanto ho amato lei, se devo elencare i miei affetti più profondi lei è una delle prime a venirmi in mente, davanti a buona part del mio parentado. Da quando ho saputo della sua malattia ho pianto più che per due delle mie zie che sono morte di cancro messe assieme (mentre è ancora viva, quando morirà sarò di sicuro devastato). La Mater sta esattamente come me, e non solo ci stiamo facendo in quattro per darle le migliori cure ai sintomi collaterali della malattia, ma la stiamo trattando da regina, le compriamo la carnetta buona, la viziamo e la coccoliamo per tutto il tempo che le rimane senza badare a spese (addirittura, la Mater trascorre con lei tutto il tempo in cui non lavora, io purtroppo sono tornato dall’altra parte d’Italia per l’università). Non esagero quando dico che, se potessi, venderei l’anima al diavolo pur di curarla, e porterei con me anche tutte quelle necessarie, di persone o di animali (ipoteticamente, dato che non credo nella mitologia cristiana).
Cosa significa questo? Che anche e soprattutto per amore della mia gatta, io ho il dovere di essere dalla parte della ricerca scientifica. In una situazione come la mia non posso non pensare che se la ricerca fosse andata avanti almeno un altro po’, magari si sarebbe trovata una cura meno invasiva o più efficace al male che affligge lei e tanti altri animali, o persone, che conosco. È anziana, le cure attuali sarebbero estenuanti e dolorosissime per lei, e non solo non potrebbero guarirla, ma sarebbero crudeli considerando i risultati incerti che avrebbero. Tutto ciò mi fa sentire terribilmente impotente, e so che questo senso di impotenza potrà, col tempo, lenirlo solo la scienza scoprendo cure migliori con tutti i mezzi che ha a disposizione. Ormai non farà in tempo a portare beneficio a lei, ma magari fra tot anni lo porterà a chi, per un motivo o per l’altro, si trova nella mia situazione.
E sì, cari animalisti, avete letto bene: il motivo per cui sacrificherei la vita anche di tutte le cavie al mondo non è la vita di una persona, che ritenete tanto poco importante, ma proprio quella di un animale, uno di quelli che idolatrate. Come la mettiamo ora?

A questo punto, parliamoci onestamente: cosa rende la vita della mia gatta più preziosa di quella delle cavie di laboratorio? Beh, proprio il fatto che sia la mia gatta. Che le voglio bene, che ho dei sentimenti per lei.
È bello nascondersi dietro la pretesa di alti ideali cosmici, ma la verità è che l’intera faccenda dell’animalismo non è guidata da una presa di coscienza etica, ma dal mero sentimentalismo. Un sentimentalismo cieco e becero che passa sopra qualsiasi senso della realtà e della morale (perché ciò che leggo da parte degli estremisti, di etico non ha nulla). Chi siamo noi per decidere cosa è giusto e cosa no in un sistema, la “natura” – o meglio, la biosfera, visto che “natura” la fa sembrare un essere senziente – che, come ho scritto, trascende totalmente il concetto prettamente umano di etica?
Nessuno. Non siamo proprio nessuno, e decidiamo in base ai nostri sentimenti ogni singola volta che ne parliamo. Tutto sta nell’avere l’onestà di ammetterlo.

La città in cui sono nato e cresciuto vive di turismo, e con la crisi sta morendo. Ci torno a distanza di mesi per le vacanze, e di volta in volta vedo negozi sempre diversi perché in mia assenza tantissimi hanno chiuso, e i nuovi che aprono durano a malapena qualche settimana. Ho descritto la desolazione della vigilia di natale, e durante il resto delle vacanze l’unico movimento di gente, l’unica fonte di introiti per gli esercizi commerciali, ristorativi e alberghieri, per le persone che ci lavorano e per le loro famiglie, è stata la notte di Capodanno e il tradizionale spettacolo con concerto in piazza e fuochi d’artificio. Partendo dal presupposto di cui sopra, ovvero che comunque amo la mia gatta più della gente in generale, a che titolo posso arrogarmi il diritto di togliere quest’unica fetta di pane ai miei (ex) concittadini perché lo spettacolo pirotecnico di mezzanotte spaventa la mia gatta? Semplicemente, amando lei più di loro, invece che scendere in piazza a bere e ballare ho deciso razionalmente di rimanere a casa con lei assieme alla Mater, tranquillizzandola con la nostra presenza e facendole vedere che eravamo calmi e non c’era pericolo. Il risultato? Lei è rimasta solo allarmata ma non spaventata, i turisti sono venuti a vedere i fuochi d’artificio e commercianti, ristoratori e albergatori hanno avuto qualche introito in una stagione di magra. Ho fatto una mia scelta, l’ho portata avanti coerentemente, l’ho applicata nella misura che il suo essere dettata da fattori emotivi e soggettivi la rende giusta, ovvero a casa mia. Ma senza la convinzione di essere nel giusto assoluto, senza imporla agli altri, senza tentare di togliere il pane di bocca ad altre persone perché sono convinto di avere la verità in tasca. (Che poi i botti randomici, ovvero i petardi, diano fastidio a me è un altro paio di maniche, ma non mi trincero dietro la protezione degli animali per dare un tocco radical-chic e idealista alla cosa).

Il pane di bocca, o anche la carne. Perché, oltretutto, sono una sola generazione lontano dalla tipica vita agreste con gli animali nel cortile. La Mater mi ha raccontato spesso della sua infanzia in un paesino rurale della Bielorussia sovietica dove i suoi genitori lavoratori avevano anche una mini-fattoria in casa. Mi ha raccontato di come il maiale adorasse farsi lavare e spazzolare, di come Rosa, la loro mucca, fosse obbediente, amasse farsi mungere e di come abbiano pianto tutti, la Mater, la zia, il nonno e la nonna, quando l’hanno portata al macello perché era troppo vecchia. Dubito che abbiano mangiato la sua carne, ma ciò non ha fatto della Mater una vegana talebana che rinuncia alla carne in linea di principio perché secondo lei è crudele.
Similmente, adoro giocare con il coniglietto di uno dei miei migliori amici e ci sono davvero affezionato. Ma ciò non mi impedisce di mangiare lo spezzatino fatto con la carne di un coniglio anonimo comprato al supermercato. Idem si sarebbe potuto dire se avessi avuto a che fare stabilmente con dei cavalli: la carne di cavallo mi piace, la mangio, e la mangerei comunque. Non quella del mio ipotetico cavallo, ma quella di altri cavalli sì.
Rispetto la scelta di chi magari ha animali considerati “mangiabili” e, essenso affezionato a loro, rinuncia a mangiarli tutti, ma torniamo sempre lì: è una scelta dettata dai sentimenti in cui il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, l’etico e il non etico, non c’entrano assolutamente. Per cui non ci si può ergere su un piedistallo e andare in giro a fare proselitismo a colpi di insulti, vandalismo e post su Facebook perché qualcuno non la pensa come noi su un argomento la cui soggettività è così marcata.

E soprattutto, non si può amare tutto il mondo, non si può salvare tutti. A me non frega nulla se uno sconosciuto viene messo sotto da un autobus sotto casa, e dovrebbe fregarmi se animali sconosciuti vanno al macello e finiscono nel mio supermercato, o se grazie a loro si perfezionano le cure per me e per i miei cari, umani e non? Anche no: proprio perché non sono specista, proprio perché non faccio distinzione fra animali e persone, mi preoccupo per chi conosco, persone e animali, mentre gli sconosciuti mi lasciano indifferente se non nel momento in cui mi trovo a interagire con loro, vuoi che sia ringraziare col sorriso la cassiera della Coop o il cameriere del mio pub preferito perché non voglio essere l’ennesimo coglione che dà il loro lavoro per scontato, vuoi che sia il cavallo, o la mucca, o il gatto che mi fermo ad accarezzare per strada o in campagna e poi arrivederci e grazie. Dopo di che, si torna ad essere estranei, e sinceramente ho altro da fare che preoccuparmi per tutti loro. Non ho sentimenti verso di loro, non mi importa di che fine faranno.
Noi viviamo in un mondo la cui biologia è crudele. Prendere o prendere, perché non ci sono alternative. La nostra biosfera va avanti incurante della sopravvivenza delle singole specie, figurarsi dei singoli individui. Come esseri umani abbiamo aggiunto un mucchio di altri significati, ma biologicamente parlando viviamo per portare avanti la nostra specie, e per farlo abbiamo bisogno che qualcun altro muoia. Non ci sono distinzioni in questo, non siamo una cosa a parte: qualsiasi comportamento che va in questa direzione è assolutamente naturale. L’istinto di conservazione della specie è naturale ed è ciò che ci fa progredire con la scienza in modo da rendere la nostra sopravvivenza più facile e assicurarci il maggior successo possibile. È ciò che ci ha portati a costruire utensili per cibarci più agevolmente, ciò che ha fatto sì che la nostra società si affinasse al punto da avere la differenziazione degli incarichi che c’è oggi, ciò che ci ha fatto superare i competitori mettendoci in cima alla catena alimentare.
Ognuno di questi comportamenti è riscontrabile ovunque nella biosfera, semplicemente siamo strutturati in modo da farlo in maniera più complessa ed efficace, con minor pericolo e, spesso, dispendio di energie. Cacciare una gazzella nella savana come fanno i leoni o allevare un animale e poi portarlo al macello come facciamo noi sono comportamenti totalmente equivalenti, cambia solo il metodo di attuazione: in base a cosa possiamo stabilire che uno è giusto e l’altro è sbagliato? Spedire le api operaie a raccogliere il nettare che poi nutrirà la regina, i fuchi o gli individui più deboli dell’alveare e comprare al supermercato la carne che altri hanno preparato è la stessa cosa: stessa domanda di sopra. Liberarsi l’un l’altro dei parassiti come i primati o uccidere topi e scarafaggi con trappole e veleni sono due facce della stessa medaglia: vedi sopra. Strappare i tentacoli della Caravella Portoghese e usarli come arma come fa il Tremoctopus e usare pelli di animali per coprirci, o usare animali come cavie per migliorare la nostra salute e le nostre aspettative di vita, sono azioni basate sullo stesso principio: ancora la stessa domanda.
Giudicare tutto ciò in nome della “natura” è un controsenso, perché implica che i metodi della “natura” stessa siano sbagliati e noi, che invece siamo in tutto e per tutto esseri naturali con comportamenti naturali, possiamo porci al di sopra di essi e rinunciarvi. Questo non è considerarsi al pari del resto della “natura”: questo è giudicarla, guardarla dall’alto verso il basso facendo finta di considerare gli altri animali non uguali, ma al di sopra di noi.

Io non sono un vegano e non sono un animalista (qui parlo di estremisti): non auguro il male agli altri solo perché non vedono il mondo come lo vedo io. Non auguro a nessuno di avere un parente, un amico o, in questo caso, un animale domestico ammalato e con i giorni contati perché capisca quanti e quali benefici si traggono dalla ricerca scientifica. Chiedo solo di fermarsi un attimo e riflettere a mente lucida, di provare ad affiancare il cervello al cuore: in natura, la morte di un individuo assicura spesso la sopravvivenza di un altro. Pensate a quante persone e quanti animali che amate sono sopravvissuti grazie alla ricerca medica, che, volente o nolente, per tutta una serie di motivi su cui mi tengo documentato fin dove riesco, ma che non pretendo di avere le conoscenze e competenze di decrivere ed enumerare (e bisognerebbe anche avere l’umiltà di ammettere di non essere al livello degli scienziati, nel loro campo), passa anche per gli animali.
Personalmente, io continuerò a devolvere le mie risorse affinché i miei cari possano vivere almeno un po’ meglio, riconoscendo razionalmente che lo faccio unicamente perché ho dei sentimenti, piuttosto che inseguire crociate idealiste, qualunquiste e generalizzatrici senza neanche sapere perché lo faccio.
Anche, e soprattutto, per amore di una gatta.

No comments:

Post a Comment