Saturday, 9 April 2016

Stream of consciousness delle 5:05

Sono sempre stato un overachiever e un control freak.
È vero, crescendo ho avuto pressioni esterne più o meno volontarie ed esplicite a ottenere sempre il massimo, ma io per primo sono quello che pretende anche più del necessario, un po’ come se dovessi sempre dimostrare di avere il diritto di stare al mondo mantenendo un buon livello di produttività. Se riesco a fare qualcosa della mia vita, vuol dire che valgo qualcosa, no? E se valgo qualcosa, a gente non potrà essere così infastidita dall’avermi intorno.
Il fatto è questo: crescendo sotto il fuoco incrociato di un divorzio, ogni mio piccolo passo falso poteva scatenare l’avvocatessa del Procreatore, sempre a caccia di un pretesto per affermare che la Mater non mi seguiva abbastanza e non era degna dell’affido. Più o meno inconsciamente ho sempre sentito di dover proteggere la Mater, che già si faceva il mazzo per me, da questo genere di attacchi; per cui, a partire dai sei anni mi sono sempre imposto di essere uno Übermensch infallibile, perfetto in ogni circostanza, controllato nel parlare e, se proprio dovevo aprir bocca, o il più specifico possibile perché le mie parole non potessero essere rigirate, o il più vago possibile per poter ritrattare all’occorrenza. Alla fine, ho talmente interiorizzato questo comportamento che, per fare un esempio stupido, ogni tanto balbetto mentre cerco il sinonimo semanticamente più appropriato, o rispondo che la Mater è “fuori” quando telefonano e non la trovano, mentre di solito lei si spertica in un “è andato là, là e là e torna alla tal’ora”.
D’altra parte c’è stata la Mater che, in buona fede, ha sempre cercato di darmi il meglio, ma alle sue condizioni. Ho sempre goduto di piena fiducia e massima libertà, ma in cambio ho dovuto presentare una resa scolastica se non impeccabile, quasi. E mi sono stati sempre forniti i mezzi per accultirarmi, dalle lezioni di pianoforte a quelle di canto, passando per il karate, il nuoto e quant’altro… ma con “e io pago” in sottofondo.
Ora, facendo pianoforte, karate, nuoto per hobby, il mio approccio è sempre stato di trattarli come un piacere; se un dato giorno non avevo voglia di andarci, partiva subito la lamentela che “ma il mese è pagato”, “allora tanto valeva che non ti iscrivessi quest’anno”, e simili. Cristo santo, se un giovedì, uno, ho voglia di starmene svaccato sul divano a guardare i cartoni animati invece che andare a pianoforte, non significa che voglio mollare o non andare più a lezione per il resto dell’anno sprecando tutti i soldi dell’iscrizione. Sul serio, dovevo essere più creativo e scrupoloso quando volevo marinare palestra, nuoto o pianoforte che non scuola. Ma cose tipo riempire la vasca da bagno con dentro costume e cuffia, asciugarli con l’accappatoio perché fosse umido e fare finta così di essere andato a nuoto. Sono grato per ciò che la Mater mi ha offerto crescendo, ma accidenti, fare qualcosa perché devi, perché ormai hai pagato, piuttosto che perché ne hai voglia, inizia a non essere più un hobby: questo la Mater non l’ha mai considerato, e ha così contribuito al mio problema di overachievement.
E poi c’è la scuola: lascio che i sociologi dibattano su quanto il sistema scolastico occidentale uccida la voglia di apprendere sull’altare della produttività e del curriculum (cosa che trovo verissima), ma oggettivamente sono stato definito per anni in base alla mia rendita. Il secchione, lo sfigato, l’emarginato che faceva comodo tenere intorno il giorno del compito in classe. E io, cretino, che mi prestavo al gioco e mi lasciavo usare per poter godere di quell’ora e mezza di accettazione sociale. Beh, se non altro il liceo mi ha insegnato a mantenere un basso profitto: ho ancora il vizio di interrompere a metà frase gli altri quando conosco l’argomento di cui parlano, per dimostrare che non sto ripetendo appresso a loro ma sono fottutamente colto di mio, ma per la maggior parte del tempo cerco di passare per una stupida oca bionda in modo da essere sottovalutato. Sul serio, essere sottovalutato è una pacchia e dà un enorme margine di manovra: gli altri si aspettano meno da me e restano sorpresi quando supero le loro aspettative, e tengono la guardia abbassata diventando prede più facili alla manipolazione.
Insomma, il fatto è che ormai ho talmente interiorizzato questi comportamenti e modi di pensare che inconsciamente non riesco a convincermi che valgo più di quello che faccio. Per dire, il terapista mi ha chiesto perché cerco ancora di fare buona impressione sui parenti ora che sono maggiorenne e non possono più farmi nulla. Beh, in realtà ho assunto io stesso il ruolo di giudice dei miei sforzi e la pressione non arriva più dall’esterno, quanto dall’interno.
Certo, frequentare una facoltà “di prestigio” non aiuta: provo un misto di pietà, antipatia e disgusto per tutti quei poveri sfigati lì dentro che credono di avere già un piede nel Parlamento Europeo perché la facoltà ha un nome leggendario, che sono convinti che finire la traduzione per la settimana dopo un giorno prima dei colleghi dia loro una marcia in più per trovare lavoro fra tre anni, che sono diventati le vestali del Tempio della Sapienza e non fanno altro che vantarsi (fingendo di lamentarsene) di star sacrificando la loro vita sull’altare di Scuola Interpreti. E mi guardano con tanto d’occhi quando ammetto candidamente che dopo un certo punto me ne sbatto e quel dato week end sono andato a Milano a far foto. E da una parte so benissimo che sono dei poveracci che cercano approvazione fingendosi martiri, che tutto sta nell’organizzare il tempo e stare chino sui libri 24/7 è in ogni caso inutile, ma l’overachiever che è in me scalpita perché non sto facendo abbastanza e il control freak dà di matto perché non riesco a essere un Übermensch al loro confronto.
È che non ho mai imparato che non devo perdonarmi o giustificarmi perché voglio prendermi tempo per me stesso e passare una giornata a letto col computer sulle gambe a non fare un benemerito cazzo: devo semplicemente prendermi il mio fottuto tempo, punto. È un mio diritto in quanto persona vivente, in quanto being: il fatto che esisto significa che ho del tempo a mia disposizione, punto. Nessuno mi può giudicare per questo, men che meno io stesso.

Bon, in realtà iniziando questo post non sapevo nemmeno io dove volevo andare a parare di preciso: è diventato uno stream rant of consciousness su argomenti vagamente collegati che mi è sfuggito di mano e che non voglio nemmeno rileggere e rendere vagamente coerente. Prendiamolo come un post di puro sfogo, e un esercizio per zittire il control freak che pretende che ogni cosa che scrivo su internet sia un testo argomentativo fatto e finito con una premessa, uno svisceramento capillare delle argomentazioni e una conclusione. Tanto è me che devo convincere di cose che già so. O per lo meno buttarle fuori dalla testa per alleggerirla e riuscire a chiudere occhio.

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