Sunday 17 April 2016

Parodia di democrazia

Di solito, quando c’è da votare faccio sempre il diavolo in quattro per il fatto che in Italia non esiste il voto postale e, da fuori sede, non posso esercitare il mio diritto/dovere se non a costo di forti disagi logistici ed economici. A questo giro, però, una parte di me è segretamente grata ai legislatori italiani per avermi infilato in questo buco normativo: il fatto di vivere a più di settecento chilometri e un mar Tirreno dal mio seggio elettorale mi dà una giustificazione moralmente inoppugnabile per starmene a casa a sorseggiare tè, ascoltare musica e, stasera, andare a cena dal cinese come qualsiasi altra domenica. Perché, caso A, me lo paghi tu il volo Alitalia da Trieste ad Alghero e ritorno per andare a votare al mio seggio? O, caso B, me le postproduci tu le foto a cui sto lavorando questo week end mentre io sto a fare lo scrutatore in seggio per avere la possibilità di votare a Trieste? Insomma, mi è concretamente impossibile prendere parte al referendum e nessuno può tacciarmi di menefreghismo.
Il vero problema è che le informazioni che ho raccolto su questa pagliacciata sollevano una domanda perniciosa: ma siamo sicuri che, in questo caso specifico, non sia moralmente doveroso, addirittura, dare il dito medio al seggio e andarsene a fare altro?

Sia chiaro: normalmente, io a votare ci vado sempre, pur con tutti i disagi del caso. Anche quando non voglio votare per nessuno: in quel caso invalido la scheda, ma il mio diritto/dovere lo esercito. Il disaccordo lo si esprime esprimendolo: non andare dà l’idea che non me ne freghi nulla, andare e invalidare dà l’idea che me ne frega, eccome, ma non mi sento rappresentato da nessuno. Ma più ho letto su questo referendum, più mi sono convinto che andare a votare, non importa se sì o no, sia un insulto all’intelligenza dell’elettore.

Non entro nel merito delle campagne del sì e del no: c’è almeno un migliaio di altri blog, là fuori, che si sperticano in analisi e argomentazioni per convincerci su dove puntare la matita. Il problema è che il 99% di queste ragioni (e sono ottimista) è pura fuffa: o deliberatamente, o per incompetenza, fatti magari anche veritieri sono stati esagerati, gonfiati, ritoccati, minimizzati o ribaltati per attirare acqua al proprio mulino facendo leva su sentimentalismo ambientalista, senso di colpa da Primo Mondo, spauracchi economici e disoccupazionali, promesse di crescita dell’energia verde, scandali di corruzione e inciuci… roba che, dai, per favore. Certo, da qualche parte fra i due estremi di delirio, fra la gente che abbocca alla lettera-confessione scritta a mano da “un petroliere” e l’illusione che quelle quattro scorreggette di metano che abbiamo sotto il mare ci rendano energeticamente indipendenti, un 1% di verità, e pure quello ripartito fra i due schieramenti, c’è. Ma ha davvero senso andare a votare a un referendum che è interamente basato sulla disinformazione fatta da chiunque, incluse le istituzioni?
E poi basta analizzare il testo stesso del referendum, che propone di abrogare una singola frase della norma in questione: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”. Semplicemente, il rinnovo non sarà automatico. Non si parla di incentivi alle energie rinnovabili, né di divieto di stipulare una nuova concessione, né di chiusura degli impianti, né di altro che non sia il metodo di rinnovo del contratto.

Che vinca il no, quelle concessioni saranno rinnovate automaticamente fino a esaurimento scorte; che vinca il sì, potranno essere essere riaperte con un nuovo iter contrattuale, sempre fino a esaurimento scorte. Che vinca il sì, perderemmo una percentuale irrisoria del fabbisogno energetico nazionale; che vinca il no, manterremmo una percentuale irrisoria del fabbisogno energetico nazionale. Che vinca il sì, fra vent’anni perderemmo svariati posti di lavoro con la chiusura degli impianti, e poi ne creeremmo di nuovi con lo smantellamento; che vinca il no, perderemmo svariati posti di lavoro con la chiusura degli impianti, e poi ne creeremmo di nuovi con lo smantellamento, fra trentacinque, massimo quarant’anni. Che vinca il no, avremmo tutti i rischi ambientali legati all’estrazione; che vinca il sì, avremmo comunque dei rubinetti tappati su giacimenti mezzi vuoti da monitorare.
Anzi, un corno! Cancelliamo tutto e fermiamoci al primo punto: una volta scadute, nulla, nulla nella normativa vieta che le concessioni possano essere rinegoziate con un contratto ex-novo. E francamente, perché non dovrebbero esserlo? Gli impianti funzionano, non ci sono stati incidenti dagli Anni Sessanta, i rischi geologici non sono considerevoli, e comunque un 1% di autosufficienza energetica in più è pur sempre qualcosa. Greenpeace potrà sbraitare quanto vuole, ma se qualche commissione dà il via libera, le attività continueranno comunque.
E allora, cosa risolviamo con questa consultazione?

A questo punto, l’unico motivo per andare a votare è quello puramente ideologico: per una volta che la ka$ta ci dà in mano il potere decisionale, sarebbe assurdo rifiutarlo. Far affondare un referendum astenendosi è sbagliato perché il confronto civile mantiene vivo il paese. Promuovere l’astensionismo “informato” come alternativa più efficace al no, pur essendo legale, è moralmente riprovevole perché si elimina il confronto e si invita l’elettorato a rinunciare a un suo diritto/dovere. Non è per il referendum in sé, ma per difendere il diritto di voto.
Sì, in linea di principio tutto ciò è vero e sacrosanto; ma nel caso specifico, è estremamente ingenuo. Sfrondato di tutta la propaganda e ideologia, il potere decisionale che, all’atto pratico, ci mettono in mano con questo referendum è assolutamente nullo. Non stiamo decidendo niente: che vinca il sì, che vinca il no, che si raggiunga o meno il quorum, non cambierà assolutamente nulla. Quindi, in primo luogo, non accetto l’argomentazione che questo referendum ci è costato soldi quindi tanto vale votare già solo per quello, dato che in qualsiasi caso quei soldi sono sprecati. E mi dispiace, non posso nemmeno prenderlo come un esercizio teorico di democrazia: il fatto che “lascino decidere laggente” con un quesito inefficace in partenza è francamente una presa in giro. È darci il contentino, puro e semplice. È farci credere che il nostro voto conti mentre dimostrano palesemente che ci chiedono un’opinione solo nei casi in cui non c’è il rischio di cambiare nulla all’atto pratico. Gli abbocconi, qui, non sono solo quelli che decidono per il sì, o per il no: sono quelli che pensano che, votando a questo referendum, stanno davvero esercitando un potere di qualche tipo quando è solo un voto vuoto, un pro forma. Ci illudono di averci fatti partecipare, di averci lasciato decidere, che se non cambia nulla è perché il referendum naufraga sul quorum ed è quindi colpa nostra, quando è stato tutto fumo negli occhi sin dall’inizio.
Votando oggi, oltre a non cambiare una beneamata mazza, non si difende nemmeno la democrazia: anzi, si prende parte alla sua parodia. Si torna a casa convinti di aver fatto qualcosa, di aver dato un segnale, di aver indicato la strada al governo, quando l’unica cosa che potremmo indicare è che siamo pronti a berci qualsiasi scemenza, che è possibile e addirittura facile illuderci di contare qualcosa quando in realtà è tutta fuffa. Forse, stavolta, il dissenso è davvero il caso di manifestarlo voltando le spalle al seggio e andando a prendere un tè, piuttosto. Dire: “Io non vado a farmi prendere in giro, ho qualcosa da dire ma lo farò con strumenti efficaci, non con una pagliacciata”.

Ma, appunto, anche volendo non avrei avuto modo di votare oggi; mi limito a osservare come un po’ tutti, chi vota sì e chi no, chi va e chi si astiene, consapevolmente o inconsapevolmente, abbiamo perso.

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