Sunday 25 September 2016

End of the World

Now that you’re there
At the end of the world,
Tell me, how does it look?
Fire and ice, like the book?
 
Ai fini pratici di un’amicizia a distanza, non c’è una grossa differenza fra la Toscana e il Nottinghamshire: in entrambi i casi non ci si vedrebbe che un paio di volte l’anno, giorni bellissimi e molto intensi seguiti da momenti in cui ci si può solo sentire. La vera quotidianità è sui social network, in chat, a raccontarsi le rispettive vite, condividere gli interessi e immaginare i momenti in cui ci si potrà rincontrare.

I’ll feed both your cats
And I’ll water your plants,
Clean up the broken glass
While you are gone.

Per qualche strano motivo, però, il fatto che il mio migliore amico si sia trasferito all’estero mi ha lasciato un sapore dolceamaro in bocca. Da una parte sono genuinamente felice per lui, che starà meglio per tutta una serie di circostanze, avrà mille possibilità in più, si scuoterà da una situazione stagnante – anzi, sono orgoglioso che abbia deciso di fare un passo simile nonostante le incertezze che affrontare un trasferimento comporta.

You don’t have to speak,
I can see you’re still weak.
I’m glad you’re there,
But baby, please,
If you ever go back
To the end of the world…

Dall’altra, Firenze non sarà mai più la stessa. I musei, le piazze, i portici, il bar della Feltrinelli, gli autobus con i mancati investimenti, l’arrivederci la sera in stazione – tutto si tingerà di una luce nostalgica. Ed è vero, prendere un Intercity o un RyanAir da Trieste non è poi così diverso in termini di tempo, stanchezza, organizzazione o soldi.  Ma è anche vero che il mio migliore amico ora vive dall’altra parte d’Europa. Con un cellulare inglese, il fuso orario inglese e al quadruplo della distanza da me. E penso a quanto io sia stato stupido a non saltare su un treno per andarlo a vedere più spesso finché potevo.
Francamente, ora vorrei tanto fare un salto in Inghilterra, anche solo per assicurarmi che stia sorridendo.

…Darling,
Take me.

(Il testo, leggermente riadattato, è di una canzone di Carice Van Houten. Quella Carice Van Houten. Sì, Melisandre di Game of Thrones ha pubblicato un album ed è pure ottimo: un ascolto non guasterà.)

Tuesday 20 September 2016

Stuck on Stucky

Di solito, essere single non mi dà particolare fastidio: mi lascia un sacco di tempo da dedicare a me stesso (anche troppo: overthinking, anyone?), seguire le mie passioni e cercare di sbrogliare il casino che ho in testa. Ci sono momenti, però, in cui la cosa mi frustra oltremodo – ed è quando la solitudine mi mette i bastoni fra le ruote proprio nel seguire le mie passioni.
Textbook case: dopo la maratona di film Marvel di qualche mese fa, sono sprofondato fino ai gomiti nella Stucky (la ship di Captain America e il Soldato d’Inverno); ora che è uscito in DVD Civil War, che può riassumersi in “Gli Avengers si pestano per il ragazzo del Cap”, ci sono ricascato con tutti i piedi e mi piacerebbe da matti portare un cosplay di Steve e Bucky a Lucca, prima o poi, facendo tanto, tanto, tanto fanservice (ovviamente faremmo la versione Anni Quaranta pre-siero, visto che al massimo ho il fisico di Steve mingherlino). E non è una cosa che mi va di fare, per dire, con un amico con benefit: sarebbe più divertente ed emozionante da condividere con qualcuno per cui nutro un sentimento più romantico. E se scoperchiamo quel vaso di Pandora che è la lista delle foto che voglio fare con un fidanzato, beh, non finiamo più.

Sì, guardo i film Marvel come film romantici. Problemi?

Spiegare il mio “problema” alle persone normali, che amano col cuore e non con la testa, per cui i sentimenti sono travolgenti e non funzionali ad altri aspetti della loro vita, è un po’ complicato e richiede una premessa.
Essendo paranoico, soffro di un disagio estremo per lo stereotipo del fottografo marpione, quello che ti propone di fare foto ma in realtà vuole un pompino. È un atteggimento che disprezzo dal profondo, per cui, al momento di scattare con un perfetto sconosciuto, mantengo le cose il più asettiche possibile. Poi, per carità, possiamo benissimo fare amicizia, magari anche uscire insieme, ma a foto fatte, postprodotte e pubblicate: fino a quel momento, il rapporto è strettamente professionale, arrivederci e grazie. È anche per questo che preferisco far posare amici: c’è fiducia reciproca, il problema non va a porsi e non finisco a farmi paranoie su che idee si faranno delle mie intenzioni. Per cui, se da una parte sono categorico nel non far colare il mondo fotografico in quello privato, non ho problemi e, anzi, amo fare il contrario.

Del resto, il soggetto di una foto è tutto nell’occhio del fotografo: uscirà come lo percepisce chi manovra la fotocamera (ed è per questo che, ad esempio, chiunque, ma proprio chiunque, uomo o donna, posi per Terry Richardson sembra una mignotta). Certe foto che ho in mente, per come le ho immaginate, richiedono che io provi una forte attrazione o addirittura un coinvolgimento emotivo verso il mio soggetto, perché quello è l’unico modo che ho per trasmettere genuinamente le emozioni che voglio che abbiano. Il soggetto deve essere desiderato, amato, venerato e, perché lo sembri sull’immagine, deve esserlo innanzi tutto nella mia testa.
Non parliamo, poi, delle foto di coppia che ho in mente: alla meglio, deve esserci una tensione erotica o emotiva reciproca; alla peggio, ci si deve spogliare insieme. Anche qui, l’amico fotogenico con benefit potrebbe essere una soluzione, ma sono dei concept talmente importanti per me che non voglio buttarli lì tanto per, senza vivere appieno l’esperienza. Sono foto che hanno bisogno di una genuinità che due modelli a caso, o due amici che scopano, non potrebbero mai trasmettere. Men che meno se devo posare anch’io, che difendo il mio spazio personale con unghie e denti e non mi metterei mai abbastanza a mio agio da farle funzionare.
C’è poi il fatto che mi scoccia chiedere favori; odio sentirmi in difetto. Andando a scattare con un ragazzo con cui sto non avrei il problema, perché i suoi sentimenti mi darebbero un vantaggio da sfruttare per bypassare le mie paranoie. Avrei modi concreti per ricambiare il favore (non necessariamente quelli che state pensando, maliziosi) e, nella mia testa, sarebbe più facile venirsi incontro.

Per cui, riassumendo, di condividere la vita quotidiana con qualcuno, onestamente, fottesega: anzi, è una prospettiva che mi inquieta un po’. Ma, per forza di cose, ho bisogno di qualcuno con cui condividere almeno parte della mia vita artistica perché abbia la profondità emotiva che cerco. La cosa diventa particolarmente frustrante man mano che nuove idee si aggiungono all’ormai chilometrica lista che ho fatto: l’ultima è Eternal degli Evanescence, che non riesco più ad ascoltare senza sbuffare perché continuo a trovarmi davanti agli occhi il trittico di foto che mi ispira e mi secca da morire non avere i mezzi per farlo. E non parliamo nemmeno di Ten Love Songs di Susanne Sundfør, su cui ho pianificato un’intera serie. Non è un caso se nelle varie app come nick ho titoli di sue canzoni: mi sono iscritto nella speranza di trovare materiale per fare quelle dieci dannate foto.
So che come discorso sembra abbastanza cinico, ma considerando l’importanza che l’arte ha per me a livello umano, e che è il filtro attraverso cui processo le mie emozioni, se trovo un partner artistico in qualcuno dal mio punto di vista significa che le cose si fanno davvero serie.

Sunday 18 September 2016

La vita in campagna è sopravvalutata

A me la vita agreste fa schifo. Sarà un’opinione impopolare, ma è così: bella la campagna, nulla da dire… a piccole dosi, una volta ogni tanto. L’unica cosa che apprezzo davvero delle comunità rurali è che la frutta e la verdura sono molto più buone che in città, per il resto grazie ma no, grazie.
E francamente non è nemmeno un atteggiamento che ho acquisito mentre, crescendo, l’establishment ha avuto il tempo di avvelenarmi la mente con consumismo, regole sociali artificiali e le altre scemenze che i fricchettoni gli rinfacciano: la mia infanzia ha preceduto di molto la diffusione di computer e cellulari, e perfino i videogiochi erano rarissimi nel paesino in cui vivevo. Eppure, già da piccolo non mi piaceva sporcarmi di sudore, rotolarmi nella polvere, chiazzarmi di fango e urlare come un forsennato: sono sempre stato più il tipo da Lego sul tappeto, vinile o musicassetta nell’impianto hi-fi e libro da leggere in poltrona. E quell’oretta e mezza di tv quando c’erano i miei cartoni preferiti. Sono proprio uscito dalla fabbrica con il gusto per le comodità moderne, e ciò non ha minimamente handicappato la mia fantasia, il piacere del gioco, o la voglia di conoscere ed esplorare il mondo.

Io a quattro anni: bei vestiti, poltrona in broccato e LP di Bach.

Per questo, da ex-bambino, nutro qualche dubbio sulle implicazioni dello stile di vita che la signora Niki Boon, ex-fisioterapista-ora-fotografa neozelandese, ha scelto per i suoi figli. Da “collega” a “collega”, trovo le sue foto spettacolari sia per tecnica, sia per espressività: i bianchi e neri sono fantastici, le messe a fuoco e le prospettive perfettamente riuscite, e la storia che vuole raccontare, il messaggio che vuole trasmettere, si intuiscono perfettamente. Anzi, francamente li tollero pure bene: non è quella glorificazione fine a se stessa delle piccole banalità quotidiane, la ricerca della dignità artistica del mondano e triviale che gli hipster usano per fingersi sensibili e intellettuali; no, Niki crede davvero in quello che fa, per questo non risulta un vuoto esercizio di concetto. Io non riuscirei a fare delle foto del genere perché non vedo nulla che valga la pena immortalare nella quotidianità, e un po’ invidio il suo punto di vista.

Ciò che non invidio è, invece, l’infanzia da favola che sta regalando ai suoi figli – almeno per come la presenta sul suo sito. Perché siamo realisti: a meno che non si prospetti loro un futuro da agricoltori di sussistenza nel loro microcosmo dorato, riderò molto per lo shock culturale quando dovranno rientrare in un mondo ancora più tecnologico di quello odierno senza averne esperienza. Perché è vero, io ho trascorso un’infanzia non tecnologica e poi ho imparato comunque, ma è anche vero che buona parte della tecnologia che uso oggi è nata e cresciuta assieme a me, e io ho imparato a usarla con la stessa gradualità con cui si diffondeva. Questi bambini invece avranno decenni di progresso tecnologico sconosciuto. In un mondo che va sempre più veloce, ci si può illudere quanto si vuole di potersi ribellare rallentando e guardando dall’altra parte, ma la verità è che si finisce solo per restare indietro. Per quanto la tecnologia stia realmente diventando troppo invasiva e io stesso faccia fatica a capire cosa se ne facciano di uno smartphone ultimo modello i bambini delle elementari, la soluzione non è rinunciare del tutto alla modernità, è trovare il giusto equilibrio fra la passeggiata all’aperto e i giochi in casa, il buon libro e il cartone animato, il videogioco e il gioco pratico.

Per concludere, mi sono imbattuto nei lavori di Niki su questo articolo, la cui parte migliore sono i commenti di quelli che vagheggiano la magia, la bellezza e la genuinità della vita agreste a contatto con la terra, lontano dal veleno della modernità… scrivendo dai computer o dagli smartphone.
Perché guardiamoci in faccia e diciamoci la verità: la vita agreste fa schifo a tutti. Niki Boon l’ha presentata come l’alternativa migliore per e, almeno secondo lei, per i suoi figli. Scommetto che, dopo un giorno e mezzo di isolamento in campagna, a tutti quelli che osannano quello come lo stile di vita universalmente migliore mancherebbe la comodità di comunicare in qualsiasi momento serva, o avere ogni informazione a portata di mano, negozi e ristoranti vicini, poter chiamare il takeaway se una sera non si ha voglia di cucinare… e urlare la loro inutile opinione comodamente seduti dietro il computer o con lo smartphone in mano. Perché è grazie a internet e alla tecnologia che hanno scoperto la bellezza di essere unici, inimitabili, sempre controcorrente e sempre su un palco da cui parlare. Perché è bello essere piccoli fiocchi di neve che spiccano nell’alienante massa umana che è la società moderna, uniformata ancora di più da Internet, ma tutti continiuamo ad approfittarne quando ci fa comodo (ovvero tutte le ore di tutti i giorni).
La verità è che, in mezzo alla natura e senza tecnologia, comodità e convenzioni, chiunque di noi sarebbe perso.

Friday 16 September 2016

Auguri, GothicDoor X


Dieci anni.
È da dieci anni che ho questo blog. Prima di lui, sempre nel 2006 ci fu un breve e non del tutto riuscito esperimento su LiveJournal; poi, qualche mese dopo, approdai su Splinder. Scelsi una grafica ispirata a The Open Door degli Evanescence, che sarebbe uscito di lì a poco, buttai giù il primo paio di post, poi una conoscente propose di trasformarlo in un blog a quattro mani e io accettai. Tempo un paio di settimane e lei abbandonò l’idea, così GothicDoor rimase tutto mio.
Ed eccoli lì, dieci anni di vita telematica, fra l’entusiasmo del primo anno, il ritorno di fiamma in quello successivo, i post continui quando ancora non mi ero disilluso della vita adulta e indipendente, i ritmi più calmi dei due anni successivi; il silenzio stampa quando Splinder chiuse, mentre cercavo una piattaforma su cui trasferirmi: su Blogspot avevo già il blog da fotografo, ma il file in cui Splinder mi aveva salvato i post non era compatibile, e sono riuscito ad aggiustare tutto solo dopo più di un anno; e poi la rinascita sulla nuova piattaforma.
Ne sono successe tante, qui sopra. Tanto per cominciare, ci ho conosciuto il mio primo ragazzo; e anche il mio primo vecchio viscido ossessionato dai giovani. Ed è stato per mesi l’unico canale tramite il quale Dadine, la mia stalker, aveva modo di stalkerizzarmi. Ho scritto post troppo sopra le righe che hanno scatenato conflitti armati con persone a cui tenevo, ho scritto per chiedere scusa, ho scritto per dire cose che non riuscivo a esprimere e la cosa ha aiutato ad appianare delle divergenze. Ho appuntato sogni, momenti di crescita, avvenimenti importanti, momenti tristi, o anche solo scemenze. E il blog c’è sempre stato.
Sono cambiato molto e non posto più come dieci anni fa. Non apro il blog per qualsiasi sfogo da mezza riga – adesso c’è Facebook per quello. Ma questo blog è sopravvissuto anche all’avvento dei social istantanei, per cui penso davvero di volergli bene. Anche quando lo trascuro perché non ho voglia di pensare alla mia vita, figurarsi scriverne. Anche se sono passato da appassionati sfoghi sui miei piccoli drammi quotidiani e cronache di relazioni più o meno disfunzionali, a postare più che altro le mie opinioni su argomenti di cronaca o cultura generale, e parlare molto meno di me stesso e quel che mi accade. Anche se negli ultimi due anni ho abbandonato la tradizione del post per l’anniversario. Eppure, eccomi qui, con qualcosa che dà forma a quello che nella mia testa è solo un turbinio di eventi sfuocati. Che mi ricorda che tante volte non ho passato un buon momento, ma le cose sono sempre andate avanti, in qualche modo. O che ho avuto spesso dei bei momenti e, nonostante gli ostacoli, nulla può portarli via.
C’è una fetta di vita, su questo blog. 

Auguri, GothicDoor. Grazie.

Wednesday 7 September 2016

Anche in me c’è una piccola Zelena

Fra i sette peccati capitali, sono sempre stato convinto di essere relativamente immune all’invidia. Cioè, sì, a te va meglio che a me, big deal: preferisco concentrarmi su perché va male a me piuttosto che su come far star male anche te. E sì, di tanto in tanto invidio i miei amici, ma in senso buono: li ammiro,  sono felice per i loro risultati, sono consapevole che li hanno meritati e, al massimo, la cosa mi sprona a cercare di fare qualcosa di buono anch’io per non essere da meno. Diciamo che l’invidia, se la si può chiamare così, la vivo in senso positivo: come motivazione, più che rivalità.
Ma ho scoperto che no, non sono affatto immune all’invidia in senso negativo, quella distruttiva che, più che di migliorarti, ti fa augurare il male agli altri – o al massimo, come compromesso, passare sui loro corpi mentre cerchi di migliorarti. Insomma, anche dentro di me c’è una piccola Zelena rosicona.
 

In realtà, facendoci attenzione noto che la mia invidia-in-senso-stretto è indirizzata a una specifica categoria di persone: i perfetti idioti. Invidio chi i risultati non se li merita o non li sa apprezzare. Mi dà ai nervi chi so essere davvero abominevole, ma se la passa meglio di me; chi, per arrivare dov’è, pesta i piedi a mezzo mondo; chi ci riesce solo per colpi di fortuna e non grazie alle sue capacità; chi non si accontenta di aver ottenuto qualcosa, ma sente il bisogno di toglierlo agli altri per essere soddisfatto. Sarà che, nonostante tutte le batoste, non riesco a smettere di sperare nel karma, ma sopporto male che la gente sia ricompensata per il nulla.
Prendete la coppietta disfunzionale – una delle persone più tossiche che conosci, l’altra che col tempo si è rivelata non essere da meno – che si sono fatte a pezzi l’una alle spalle dell’altra per mesi prima di trovare un idillio che sbandierano con ventordici selfie la settimana su Hipstagram.
O prendete quello che si lamenta di continuo che non gliene va dritta una, ma si trova sempre nel momento giusto al posto giusto per puro caso e poi te lo sbatte in faccia come se fosse tutto calcolato con cura.
O, ancora, quello totalmente incapace di uno scambio empatico, che in una conversazione utilizza qualsiasi cosa tu dica come trampolino per lanciarsi a dire quanto lui abbia fatto di meglio e le tue conquiste a confronto impallidiscano.

Rileggendo quanto ho scritto, mi sto rendendo conto, però, che a mandarmi in bestia sono soprattutto quelli che devono sempre sbandierare i loro risultati, le loro fortune, le loro conquiste e, possibilmente, sminuire le tue apposta per suscitare invidia. Il che rende il mio atteggiamento ancora più stupido, visto che cado nella loro trappola con tutte le scarpe. D’altro canto, riflettendo mi rendo conto che forse la mia non è esattamente invidia: queste persone non meritano ciò che hanno perché non hanno la statura morale per goderselo. Se cercano costantemente di validare il proprio successo suscitando l’invidia altrui, significa che non lo apprezzano davvero per la soddisfazione che suscita loro. Quello che hanno non basta, devono per forza far stare male qualcun altro perché si sentano appagati, e questo è un enorme spreco dei loro risultati. A bruciarmi non è tanto l’invidia, quanto il senso d’ingiustizia, perché quelle stesse fortune sarebbero potute capitare non dico a me, ma a qualsiasi persona che se le sarebbe godute senza avvelenarle.

Insomma, forse dopo tutto non ho davvero un problema di invidia: è una semplice reazione al modo di porsi degli altri. Del resto, quando faccio le cose è principalmente per la mia soddisfazione e crescita personale, non per far mangiare la polvere a qualcuno. E magari sì, trovarmi di fronte persone sgradevoli mi rende un filino più competitivo, ma a quel punto sono sicuro che non abbia nemmeno bisogno di scendere al loro livello e sbandierare le cose, per far loro lo sgambetto: basta andare dritto per la mia strada.

Friday 2 September 2016

Metti la testa a posto, Belle!

Lui: “Questo sarà il giorno in cui si avvereranno i tuoi sogni!
Lei: “E tu che cosa ne sai dei miei sogni, Gaston?
Lui: “So tutto! Senti, immaginati la scena: una rustica casina di caccia, la mia ultima preda che arrostisce sul fuoco, la mia mogliettina che mi massaggia i piedi… mentre i piccoli giocano sul pavimento con i cani – naturalmente, ne avremo sei o sette.
Lei: “Cani?
Lui: “No, Belle! Ragazzi robusti, come me!
Lei: “Immagina la scena…

No, non è l’ennesimo post in cui si analizza in maniera arguta e approfondita il rapporto diretto fra precarietà lavorativa, mancanza di servizi e bassa natalità: è un semplice sfogo, ché è tutto il giorno che ci macino sopra e ho solo bisogno di buttar fuori.
Ci sono tante di quelle cose che si potrebbero dire sul Ministero della Salute, oggi, che non so nemmeno da dove iniziare. Forse dal far notare che quattro mesi fa si faceva ostruzionismo su certi temi al grido: “No all’utero in affitto, il corpo è della donna!!!”, mentre oggi si è deciso che l’erogazione degli ovuli è un servizio pubblico comunitario? Con tanti saluti alla dignità della donna, che non era un’incubatrice su gambe da affittare?
In realtà, questo è stato un mio pensiero a posteriori. La reazione a caldo è stata: “Chi diamine ha messo Gaston come Ministro della Salute?”.

In cui il #FertilityDay è Gaston e il libro la dignità delle donne. O quella umana in generale.

No, sul serio: la presunzione di sapere che tutte le donne, o uomini, vogliano fare figli, e di dir loro quando e come farlo, e che emanciparsi culturalmente vada a detrimento della missione procreativa, sembra uscita direttamente dalla bocca di Gaston. E Gaston è una caricatura del sessismo più becero. Sul serio siamo governati da ‘sta gente?
Ci sarebbe da aprire uno studio per capire come la campagna promozionale del #FertilityDay sia riuscita a far incazzare tutti, ma proprio tutti i tessuti sociali italiani con precisione chirurgica. A partire dal nome, un anglicismo gratuito che ricorda il già indigesto Family Day. E poi gli slogan – tutti, chi più chi meno, vanno a pungere qualcuno sul vivo: donne in (precaria) carriera, giovani disoccupati che vorrebbero avere figli, coppie sterili… perfino me. E non perché ho consapevolmente deciso che non voglio fare figli: mi ha offeso in quanto figlio.

Ma il saluto romano / dito accusatore del fratellino mai nato?

Fatemi capire: avere un solo figlio è una sfortuna? Anzi, nemmeno una sfortuna, una punizione per non essersi mossi prima? Cavolo, avermi fatto figlio unico è una delle poche cose circa il mio concepimento di cui sono grato ai miei genitori, ora salta fuori che hanno fatto male? Che non è meglio fare un solo figlio e impegnarsi a dargli il meglio, bisogna farne il più possibile?
Mi verrebbe da pensare che siamo tornati ai tempi in cui i figli non erano esseri umani del cui concepimento, nascita e crescita si è responsabili, ma semplice forza-lavoro gratuita con cui portare soldi in famiglia; e, considerando che l’intera faccenda è un tentativo di ringiovanire la decrepita popolazione italiana per far entrare nuove tasse al sistema pensionistico, concettualmente non sono andato nemmeno troppo lontano.

Ma magari hanno ragione gli (sparuti) apologisti della campagna (io ne ho intravista una sola nella mia rete sociale). Magari l’intento è davvero solo “informare, prevenire le malattie che rendono sterili e spiegare al cittadino il funzionamento del suo corpo” (tralasciando che, però, l’educazione sessuale nelle scuole NO perché è gender). Magari il problema non è tanto l’hashtagFertilityDay ma gli slogan e le “cartoline” create da Mediaticamente, l’azienda grafica che ha vinto il bando per la campagna. Del resto, un’azienda ha un nome che sfrutta il cliché “è un’avverbio, ma descrive anche la nostra mente”, e voi vi fidate della loro creatività? Siete deficienti?
Ma forse tutto lo snark e le minacce velate e le frecciatine e la passivo-aggressività ce li hanno messi loro. Lasciamo stare cicogne e retorica e associazioni mentali sfortunate; andiamo a leggere semplicemente cosa dice il Piano Nazionale per la Fertilità del Ministero. Ok, c’è quel tremendo “facciamo più figli per la Patria” che fa tanto Ventennio, ma quanta iperreattività c’è stata, in effetti?

Beh, ci sono varie cose che fanno sembrare il documento una specie di propaganda non del tutto onesta a favore della Sacrosanta Famiglia Tradizionale. Ad esempio, c’è una certa propensione a fornire dati non incoraggianti sulle “forme di unione alternative al matrimonio” ma glissare (o non dire nulla) sulle controparti delle famiglie “tradizionali”, si sa mai che magari siano troppo simili. Ma i paragrafi più incriminati in assoluto sono il 2.3, sul “ruolo del livello di istruzione e della condizione professionale”, e il 2.4, in cui si analizza come “l’asimmetria dei ruoli porta al rinvio”. Che no, non è una constatazione del fatto che chi non ha un lavoro stabile ma ha un cervello in testa difficilmente si metterà a figliare, ma sostanzialmente dice che si stava meglio quando si stava peggio. Nello specifico, quando le donne stavano peggio. Tre stralci di testo, nero su bianco. Uno dal paragrafo 2.3:
L’analisi non può prescindere dal mettere in relazione la tematica più generale dell’istruzione con il ritardo nei tempi della maternità/paternità. La crescita del livello di istruzione per le donne ha avuto come effetto sia il ritardo nella formazione di nuovi nuclei familiari, sia un vero e proprio minore investimento psicologico nel rapporto di coppia.
E due dal paragrafo 2.4:
La maternità nei paesi occidentali, nel corso di un periodo relativamente breve, si è modificata. È divenuta una ricerca consapevole, non più subita, frutto di scelte e convenzioni appartenenti ad altri. La maternità non è più un destino biologico […].
Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità?
La collettività, le istituzioni, il competitivo mondo del lavoro, apprezzano infatti le competenze femminili, ma pretendono comportamenti maschili.
Dopo avere valorizzato le caratteristiche di indipendenza e realizzazione di sé delle bambine e giovani donne, dopo aver fatto in modo che si tendesse ad una parità di genere, che ha portato alla conquista di un titolo di studio, spesso di secondo livello e un lavoro agognato, magari di responsabilità, la maternità appare improvvisamente alle donne come un preoccupante salto nel buio, un ostacolo ai progetti di affermazione personale.
Nel paese degli stereotipi di genere, quello “mammone”, dei “bamboccioni” e della pubblicità con il “mulino”, una donna su cinque non fa più figli.
In passato, l’orologio biologico delle donne era anche la vicina/parente impicciona che chiedeva insistentemente “novità” alla sposina. Oggi, in periodo di comunicazione politically correct, occorre spiegare, informare in modo capillare e continuativo, portare a conoscenza delle donne e degli uomini che la fertilità è una curva gaussiana che comincia a scendere molto prima che la donna consideri la questione come un’opportunità.
Cioè, in sostanza è un male che le donne abbiano scoperto che nella vita c’è di più che sgravare continuamente e rammendare montagne di calzini? È un male incoraggiare le bambine (ma anche i bambini, eh!) a seguire i loro sogni – che siano mettere su famiglia così come realizzarsi professionalmente? È un male che parenti e vicini si facciano gli affari loro? No, perché parafrasato e riassunto, il contenuto di queste citazioni è:

Tralasciando che metà delle virgole le ho aggiunte io per pietà; ma l’istruzione non serve.

Insomma, è già abbastanza fastidioso che lo Stato tenti di mettere becco sulla vita famigliare delle persone in qualsiasi modo non siano sovvenzioni, servizi e altre risorse messe a disposizione del cittadino. Sentirsi dire come gestire il proprio corpo, cosa fare del proprio tempo libero, del rapporto di coppia, della sessualità e, porca miseria, persino dello sperma e degli ovuli è piuttosto ansiogeno: sono campi talmente personali, intimi per definizione, che dà già fastidio quando vengono a ficcarci il naso i nostri genitori, figurarsi la Lorenzin e i suoi galoppini. Ma farlo in una maniera così prevaricatrice, utilizzando una campagna mediatica dalla forma supponente e condiscendente, spesso addirittura offensiva, e un testo dai contenuti così retrogradi e addirittura fascisti… beh, non c’è da sorprendersi se, tanto per cambiare, siamo la barzelletta del resto del mondo.
Che poi, io ci ho a che fare da tutta la vita, con una famiglia di nove tra fratelli e sorelle, ed è una delle cose più disfunzionali che abbia mai visto. Altro che forza nella tradizione. Personalmente, il giorno in cui uno dei galoppini della Lorenzin – nome a caso… Gaston! – verrà a casa mia a controllare dove, come, quando e a che scopo infilo il pisello… beh, la mia reazione sarà una soltanto: