Friday, 4 March 2011

Keskifo/Somebigfail

Credo che al prossimo testo di Kiske/Somerville che leggerò inizierò a vomitare glucosio. Io lo capisco che non tutti sono cattivi e cinici come me, ma cristo, se proprio vuoi scrivere canzoni da post-sfidanzamento, ci sono mille modi per non suonare disperatamente patetico o pateticamente disperato!


Detto in chiaro, l’unico pregio del debutto eponimo del progetto a due voci fra Michael Kiske e Amanda Somerville è la voce di lei. Peccato che, per qualche motivo, sia stato deciso che debba restare costantemente in secondo piano rispetto a quella di lui, che canta con l’enfasi di Tamarrja sotto xanax. Ma anche a prescindere dal fatto che il rapporto del cantato di maschile/femminile è di 7 a 3, se devo ascoltare qualcosa solo per Amanda, allora a preferenza ascolto il suo album solista Windows, che è davvero ben fatto. Perché questo Kiske/Somerville è composto, nella sua edizione speciale, da dodici canzoni di cui nove perfettamente identiche, e solo tre che, più o meno, si fanno riconoscere. Sul serio, se non mi applico ad ascoltarlo con estrema cura, come ora mentre aggiungo i testi ai file, inizio con l’opener rocknrollmapop, annuisco, spazio su internet in attesa che l’album entri nel vivo, e poi mi sveglio di colpo quando inizia la numero nove, che è la prima canzone riconoscibile. L’idea che solitamente mi viene a quel punto è di provare a riascoltare ciò che mi sono perso, ma poi mi dico che se per 35 minuti e 45 secondi ho pensato ad altro, probabilmente non ne vale la pena.
E in effetti è così, perché all’assoluta desolazione del comparto testuale, l’album affianca un’altrettanto totale uniformità a livello musicale. L’intero lotto può essere smistato in due categorie e riassunto in One Night Burning e Devil In Her Heart, le uniche due canzoni che davvero dicono qualcosa, rispettivamente la traccia sentimentale mid-tempo e la canzone metalleggiante. Considerando che le canzoni migliori sembrano possibili singoli acchiappa-radio, lascio immaginare quale sia il livello delle altre: non si può scrivere un intero album di canzonette rigorosamente strutturate col classico schema strofa-ritornello-strofa-ritornello-bridge/assolone di chitarra (che fa sempre figo e tVue)-doppio ritornello! O meglio, volendo anche si può, ma almeno bisogna variare la strumentazione, gli arrangiamenti, le percentuali di cantato maschile e femminile, mentre qui si mantiene tutto talmente uniforme che viene da chiedersi perché prendersi il disturbo di scrivere ben dodici canzoni.
Menzione a parte va fatta per la traccia conclusiva (se si esclude l’inutile bonus), Second Chance: parte avantaggiata rispetto al piattume medio perché è una ballad, e quelle si fanno notare per forza di cose, ma è talmente stereotipata, canonica, prevedibile e mielosa che alla fine si fa voler bene per ammoreh del kitsch.

A questo punto si potrebbe obiettare che basta prendere questo lavoro per il classico album di poche pretese che è, e apprezzarlo contestualmente a ciò; ma allora mi chiedo perché assemblare ex novo un supergruppo con gente del calibro del sempreverde Sander Gommans, se non si vuole andare oltre la grigia mediocrità. E detto in chiaro: se l’ho stroncato solo ora, è unicamente perché prima quest’album non mi era nemmeno rimasto abbastanza impresso da parlarne male. Mi viene quasi da rivalutare il già pessimo ReVamp, che a confronto è quasi interessante. E sì, sono stato abbastanza velenoso, ma da estimatore di Amanda quale sono, sentirla sprecata in un contesto del genere mi avvilisce.

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