Monday, 23 October 2017

American Horror Story: #ustoo


Capisco le perplessità di chi sta guardando American Horror Story: Cult e… meh, non è che gli garbi molto, e anche commenti come “non è l’AHS che conoscevo e amavo” (a parte che ogni stagione “non è Asylum”, ma quello è un altro paio di maniche) o “è troppo diverso”.
Cult è oggettivamente difficile da digerire, ha una trama complessa da seguire (soprattutto nei primi episodi) e si distacca parecchio da ciò che l’ha preceduto: niente fantasmi assassini, demoni, streghe, maledizioni, vampiri. Per lo stesso motivo per cui sguazzo negli horror soprannaturali ma non riuscirei a guardare i gore in cui la gente si tortura e mutila, per lo stesso motivo per cui Countrycide è l’episodio che mi ha messo più ansia in Torchwood e The Benders, dalla prima stagione, è stato uno dei più ansiogeni in dodici stagioni di Supernatural: quando il male è realistico, perpetrato da esseri umani verosimili per motivi e in circostanze che potrebbero accadere davvero, è molto più snervante. Imbattersi in fantasmi e mostri nella vita reale è alquanto improbabile; i serial killer che torturano e uccidono le persone invece esistono (vedasi Roanoke: i fantasmi della colonia? Jump scare occasionale. I Polk? Ansia a palate).

E io stesso, che sto apprezzando la stagione, mentre la guardo ho spesso l’impressione che sia over the top: davvero riusciamo a infilarci dentro le elezioni americane, complottismo, razzismo, omofobia, misoginia, scie chimiche, fake news, omicidi seriali, sparatorie di massa, tutto assieme? Cioè, non stiamo mettendo troppa carne al fuoco? Possibile che questa roba succeda tutta in una volta? Adesso cosa, terrapiattisti e antivax?
Poi vai a guardare l’episodio 6, quello con la sparatoria di massa e lo stupro / coercizione / abuso psico-emotivo-sessuale / manipolazione tramite il sesso di Meadow Wilton, e quando è andato in onda? A pochi giorni dalla sparatoria di Las Vegas e subito prima che esplodesse lo scandalo Weinstein.
Ed è proprio lì che capisci che no, Cult non sta esagerando, non sta mettendo troppa carne al fuoco: questa roba sta davvero accadendo tutta assieme.
Certo, prende queste situazioni e le porta all’estremo – tutto succede in un’aera geograficamente ristretta, una cittadina suburbana, ed è parte dell’enorme macchinazione di un potere nascosto – ma il succo è reale: sono tutti eventi verosimili – eventi che stanno accadendo – e no, non c’è un potere centrale che li causa direttamente, il “complotto” nel mondo reale è come li sfrutta. Vengono inseriti in una narrativa mediatica che li fa sembrare molto più diffusi e concatenati proprio per fare ciò che fa Kai Anderson, suscitare un senso di paranoia sociale che cerchi risposte in qualsiasi follia rotoli fuori dalla bocca di un leader demagogico e (apparentemente) forte.
American Horror Story: Cult ci destabilizza tanto proprio perché fornisce un ritratto esagerato ma verosimile della realtà in cui ci muoviamo, e lo fa nel momento esatto in cui la stiamo vivendo. Non è una casa infestata o un manicomio dei tempi andati, è la società di cui facciamo parte fotografata oggi, con i comportamenti che ha in questo preciso momento e che rappresentano un pericolo concreto. Non ci aiuta a esorcizzare paure ancestrali con metafore soprannaturali, ci costringe ad aprire gli occhi e guardare qualcosa che è più grande di noi.

E a cui tutti, chi più chi meno, volontariamente o no, stiamo contribuendo.
Ryan Murphy è molto comodo da guardare se si è progressisti o si fa parte di una minoranza perché il commento sociale è sempre un tema portante dei suoi lavori. E poi è arrivato Cult, che ci sta sbattendo in faccia la dura realtà: stare dalla parte giusta della storia non è poi così semplice e immediato.
Da Cult probabilmente ci si aspettava molta più retorica anti-Trump ma, sebbene l’intera stagione sia una decostruzione dei suoi metodi di propaganda, ci siamo trovati invece un’equa distribuzione delle colpe. È facile prendersela con i sostenitori di Trump etichettandoli come stupidi, ignoranti, suggestionabili o deliberatamente bugiardi, ma per un Gary Longstreet che fa parte della setta di Kai, tutti gli altri sono sostenitori della Clinton: per un motivo o per l’altro, chiunque può lasciarsi fregare se le circostanze lo permettono.
Poi c’è Ally Mayfair-Richards, il cui personaggio è una feroce critica a chi, protetto dalla sua bolla, sottovaluta i fenomeni sociali che portano a situazioni come quella attuale, manca di pragmatismo quando c’è da decidere e poi reagisce con paranoia e melodramma invece che rimboccarsi le maniche e cercare di fare la differenza.
Winter Anderson, Ivy Mayfair-Richards, Beverly Hope e Harrison Wilton, invece, sono quelli che ci mettono più a disagio perché sgretolano il nostro entitlement come minoranze. Il mondo è ingiusto e ci sono categorie di persone che soffrono realmente per la discriminazione, ma non si può gridare al maschio bianco eterosessuale cisgender per ogni cosa: parte del problema è proprio l’incapacità di tracciare un confine fra portare avanti una causa progressista per migliorare la società e marciarci sopra senza pensare alle conseguenze. Non sempre si ha ragione a priori solo perché si fa parte di una minoranza che lotta per i suoi diritti.
Il sessismo è reale e ci si sbatte sopra la faccia quotidianamente, ma non lo si può additare come causa ogni volta che si riceve un torto: così facendo si finisce per diluire il problema fino a fargli perdere di significato; se si dice “patriarcato” anche quando un uomo taglia la strada a una donna, non si fa che avvalorare la tesi che il sessismo è solo paranoia, una scusa per avere qualcosa di cui lamentarsi.
L’oppressione e la discriminazione affrontate in quanto gay sono talmente dolorose da poter spingere al suicidio, ma non scusano o diminuiscono la gravità della misoginia buttata lì perché, tanto, se non si oggettivizzano le donne sessualmente tutto il resto è concesso, è un inside joke di una sottocultura.
E abbracciare una causa progressista non è positivo se, nel farlo, non solo si ignora qualsiasi altro gruppo sensibile, ma si porta l’ideologia all’estremo, si inizia a usare la violenza e si applica la discriminazione agli altri, perfino alla “maggioranza” oppressiva – l’episodio sette, che si concentra su Valerie Solanas, è praticamente fatto di questo.
Ed è davvero brutto dover aprire gli occhi quando si è convinti di fare qualcosa di positivo: a volte si confonde l’attivismo con lo sfogare la propria frustrazione e si diluisce il suo messaggio; a volte, si è talmente concentrati sulla propria causa che si ignorano le sensibilità altrui contribuendo ad esacerbare gli animi; a volte si è omertosi verso le frange più estremiste per paura di non essere alla loro altezza. Anche il “lato giusto della storia” ha molte, delicate sfaccettature e il nostro corso d’azione può fare danno nonostante le buone intenzioni.

Per cui è facile capire perché American Horror Story: Cult possa dare quella spiacevole sensazione che qualcosa non vada: ci trascina fori dalla comfort zone. Da una parte, #toosoon, parla di eventi che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi e sottolinea quanto pervasivo sia il meccanismo che li muove; dall’altra, #ustoo, ci fa notare e costringe a scendere a patti col fatto che, pur con le migliori intenzioni, anche noi abbiamo combinato dei casini e rischiamo di combinarne altri.
Ryan Murphy sta facendo un ottimo lavoro nello sfidare le nostre convinzioni, nel mostrare quanto assurde eppure plausibili siano le conseguenze di ogni nostra azione, e ci sta mettendo in guardia su come riconoscere questi meccanismi per cascarci il meno possibile. Dobbiamo solo avere l’onestà intellettuale di riconoscere in quale trappola siamo caduti e cercare di non cadere nella paranoia da una parte e di scegliere i mezzi più efficaci e meno dannosi per sistemare le cose dall’altra.

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