Wednesday 31 December 2014

Bilancio musicale del 2014: Paradiso

E dopo esserci immersi negli abissi dell’orrore e aver strisciato nei tunnel della mediocrità, eccoci finalmente al picco di eccellenza di quest’anno. Come accennato, il 2014 è stato ricchissimo di uscite, e fortunatamente la maggior parte sono più che positive. Grandi risultati sia fra le varie declinazioni di pop, sia in territori più o meno metal, con conferme che fa sempre piacere ricevere, meraviglie inaspettate, comeback epocali e cambi di direzione a lungo attesi.
Tenendo conto che l’ordine è abbastanza casuale, siete pronti?


MueEmilie Simon
Mue – Emilie Simon
Oltre che il titolo del suo nuovo album, “Mue”, francese per “muta”, potrebbe essere il riassunto dell’intera carriera discografica di Emilie Simon: un’evoluzione costante e inarrestabile che dal 2003 ad oggi ha regalato lavori sempre diversi, che hanno coperto un ampio spettro di stili – dal trip-hop più etereo al synthpop dal sapore newyorkese – fino al heartbreaking (per mancanza di un corrispettivo italiano altrettanto intenso) Franky Knight. Con il nuovo album, Emilie non ha deluso e nuovamente ha cambiato pelle, proseguendo la sua crescita artistica. La parola chiave del sound della cantante francese è da sempre “atmosfera”: lei non si dedica a un genere tanto per farlo, ma ogni arrangiamento, ogni scelta stilistica è sempre oculata al fine di creare un particolare mood all’interno del disco. Mue è un album che, ben saldo nel presente, guarda anche al passato: le atmosfere sono tornate delicate come nei primi due album, ma in un certo senso aggiunge un nuovo capitolo agli ultimi due. Di The Big Machine riprende la narrativa, il modo in cui descrive la vita di un’intera città in undici canzoni – una vivace New York a tinte synth e broadwayane all’epoca, una romantica Parigi dalle tinte pastello oggi; di Franky Knight, album tristissimo scritto per il fidanzato morto di influenza A nel 2009, rappresenta la svolta: la malinconia si trasforma in dolcezza e sia le melodie che i testi sono più positivi e guardano al futuro. È proprio in quest’ottica che, per chi la segue da anni, il titolo acquista un’ulteriore profondità. Ci sono ancora tracce della perdita di François Chevallier (Des Larmes, in cui è ancora dolorosa, e Quand Vient Le Jour, in cui arriva la rinascita), ma l’album è più una celebrazione dell’amore: quello per Parigi (la fantastica opener e Les Étoiles De Paris), quello problematico (Menteur), non corrisposto (Le Diamant), doloroso (Perdue Dan Tes Bras), viscerale (Encre), ingenuo e sognante (Eye Of The Moon), erotico (Les Amoureux De Minuit, Wicked Game), con una delicatezza e delle immagini evocative che riescono a rendere non scontato il tema forse più abusato del mondo.
Musicalmente, rispettando sempre l’atmosfera “pastello” che gli dà coesione, il disco mostra un’ottima varietà di arrangiamenti, dal pop radiofonico del singolo Menteur all’acustico retrò di Les Amoureux De Minuit, dagli archi di Des Larmes alle atmosfere cinematografiche e orientali di Perdue Dans Tes Bras, passando per le reminescenze trip-hop di Quand Vient Le Jour e la tipica chanson française di Les Étoiles de Paris, fino a una delle migliori cover di Wicked Game di Chris Isaak che mi sia capitato di sentire. Vocalmente, Emilie dimostra ancora una volta la sua versatilità passando dalla voce candida e delicata che l’ha resa famosa agli esordi a qualche accenno dello stile “Kate Bush” che ha caratterizzato i lavori più recenti, il tutto impreziosito da un uso molto oculato di filtri e distorsioni – uno dei capisaldi del suo sound, anche e specialmente dal vivo. Non una singola canzone fuori posto, non un arrangiamento ridondante, non una melodia sbagliata: Mue è uno degli album migliori della carriera di Emilie e una delle highlight di quest’anno.
Preferite: Perdue Dans Tes Bras, Wicked Game, Quand Vient Le Jour

HydraWithin Temptation
Hydra – Within Temptation
Per qualche strano motivo, i Within Temptation li si aspetta al varco, pronti a gridare “alla schifezza”, ogni volta che devono pubblicare un nuovo album. Probabilmente perché, invece di adagiarsi sugli allori e ripubblicare tre volte la stessa solfa per continuare a mungere il symphonic metal da manuale, con ogni lavoro portano qualcosa di nuovo. Fortunatamente, anche a stavolta hanno mischiato le carte in tavola e tirato fuori un disco fresco, al passo coi tempi e difficile da paragonare a qualsiasi altra band della scena. Il trend di quest’anno (purtroppo un po’ di tutti) è fare un passo indietro e combinare il sound moderno che troppi metallini paraocchiati non hanno apprezzato con un certo gusto nostalgico, e in questo Hydra funziona perfettamente: attinge a piene mani dall’intera discografia della band ma la rielabora e trasforma nel filo che collega il passato a un sound fresco e moderno, senza riscaldare una minestra vecchia di un decennio e mezzo. Probabilmente è meno coraggioso di The Unforgiving, ma ha dalla sua una notevole varietà: il sound caratteristico dei Within Temptation è sempre lì, ma elaborato ora in chiave rock, ora ambient, ora combinando una vena indie pop con elementi prettamente sinfonici. L’operazione nostalgia è affidata alle composizioni solide di Silver Moonlight e Tell Me Why, che non sfigurerebbero accanto ai “classici” degli Anni Duemila, ma evitano l’anacronismo; il discorso di The Unforgiving è portato avanti da Let Us Burn e Covered By Roses (di quest’ultima, peccato che l’elettronica della versione demo sia stata stemperata notevolmente), mentre Edge Of The World e Dog Days fanno tesoro dell’esperienza delle Q-Music Sessions, portando ulteriore varietà; And We Run, il piccolo capolavoro inaspettato, guarda totalmente altrove e sdogana nientemeno che il rap in maniera ancora più “sfacciata” di quanto i Theatre of Tragedy abbiano fatto in passato. L’album soffre forse di una mancanza di coesione dovuta al fatto che, pur andando avanti, cerca anche di accontentare quei fan che sono rimasti indietro sulla scala evolutiva (del metal, intendo), il che dimostra che i Within Temptation dovrebbero semplicemente tirare dritto e fregarsene di chi non riesce a star loro appresso.
A parte questo, l’unica vera nota di demerito sono gli ospiti: tolto Xzibit che fa un lavoro spettacolare completando And We Run, e Piotr Rogucki che se la cava decentemente in Whole World Is Watching (in studio, poi ho sentito un live acustico da mani nei capelli), degli altri non si sentiva la necessità. La Tamarrja, fortunatamente relegata al ruolo di corista su Paradise (What About Us?), è inutile come sempre se non a fini commerciali, e il confronto con Sharon non le fa certo bene; Howard Jones non canta, cerca con scarso successo di sputare la palla da biliardo che gli è rimasta incastrata in gola rovinando Dangerous, che già è la traccia più insipida dell’album; Dave Pirner, infine, gracchia e fa solo ringraziare per l’esistenza della versione di Whole World Is Watching con Rogucki. Insomma, Sharona Milfona avrebbe potuto benissimo cavarsela da sola con Xzibit e nessuno avrebbe pianto. Ma hey, se non altro non hanno invitato Lagna del Rey, visto che Sharon la adora!
Preferite: And We Run, Dog Days, Edge Of The World

Time To TellKari Rueslåtten
Time To Tell – Kari Rueslåtten
Kari. La madrina del gothic metal, la prima frontwoman di stampo clasico in una band metal, l’inossidabile voce fatata di Trondheim… la piromane preferita mia e di Veronica. La sua sparizione dalle scene musicali nel 2006 è stata ben triste, dopo un EP e un album cruciali per la nascita del metal a voce femminile seguiti da quattro magnifici album solisti; l’annuncio del suo comeback, l’anno scorso, è stato accolto con entusiasmo pressoché universale (beh, per quanto la sua nicchia di pubblico, vergognosamente piccola dato il suo talento, possa essere considerata un “universo”). Un annuncio estremamente ruffiano, presentato con una cover di Why So Lonely, uno dei classici del suo periodo nei The 3rd And The Mortal, in collaborazione con un musicista dalla fanbase notoriamente solida, Tuomas Holopainen: una doppia operazione di marketing per mandare in brodo di giuggiole i fan nostalgici e incuriosire al tempo stesso le orde di fangirl sordocieche della Tommasa, sempre pronte ad adorare qualsiasi cosa in cui metta mano senza nemmeno chiedersi cosa sia. Ma tolto il cattivo gusto del featuring (perdonabile, dato che, sorprendentemente, ha prodotto un risultato magnifico), quel che resta è un comebak con i fiocchi. Time To Tell è un album per molti aspetti celebrativo della carriera ventennale di Kari, con piccole chicche nascoste che i fan non potranno non amare. Basti pensare all’intro e title track, che riprende nel titolo e nelle lyrics le ultime parole con cui Kari ci aveva lasciato in Other People’s Stories: questo si concludeva con una promessa (“There’s a time, Orlando, to sing other people’s stories; there’s a time, Orlando, to sing my own story too”) finalmente mantenuta (“Now it’s time, time to tell”). Ed è proprio questo, Time To Tell: un discorso interrotto e ripreso ora che i tempi sono maturati. Nella carriera di Kari, in costante evoluzione, Time To Tell rappresenta proprio l’album della maturità, dal sound sobrio, minimale e per lo più acustico, che con un pianoforte, una chitarra, qualche percussione e poc’altro costruisce un palco d’eccezione perché Kari torni a deliziarci con la sua voce unica in canzoni dalla genuinità e freschezza disarmanti. Otto anni di attesa sono stati ripagati ampiamente: non ci resta che sperare che, ora che ha ritrovato la passione per la musica, Kari continui a scrivere e cantare.
Preferite: Why So Lonely, Wintersong, Paint The Rainbow Grey

The Human ContradictionDelain
The Human Contradiction – Delain
Mrtijn Westerholt è il genietto del pop metal, e qui c’è poco da ridire. Sulla falsariga di April Rain, anche se con un passetto indietro rispetto a We Are The Others, The Human Contradiction continua l’opera di svecchiamento del symphonic metal, sdoganando sempre più strutture prettamente pop ma amalgamandole con dettagli tipici del genere per non far lamentare i nostalgici. L’orchestra è molto elaborata e la sua presenza è costante, ma relegata alle retrovie per dare giusto quel tocco in più, così come i cori, che sono usati in maniera oculata e intelligente, senza trasformare tutto in una pacchianata anacronistica. L’elettronica non è stata rinnegata e continua a completare il sound, rendendolo più sfizioso della solita solfa pseudo-classicheggiante, e non mancano molti episodi spiccatamente danzerecci (Army Of Dolls ha un bridge da looppare in pista). La voce di Charlotte è finalmente fiorita e mostra tutte le sue sfumature, oltre a un’espressività notevole. Nel complesso, l’album è meno immediato dei precedenti e richiede qualche ascolto in più per rivelare le sue piccole meraviglie (sulle prime ho praticamente snobbato Here Come The Vultures, che è poi diventata una delle mie preferite); ma basta dargli la dovuta attenzione, che subito i ritornelli si attaccano al cervello e non ne escono più. Per non parlare delle atmosfere, quasi sempre azzeccate: dall’opener, che rende le immagini da incubo dei testi in un modo che una Scaretale dei Naituiss si sogna solo, continuando con la traccia conclusiva che, in perfetto stile Delain, riprende elementi epici e magniloquenti reinterpretandoli, però, in chiave più catchy, per arrivare alla canzone post-break up definitiva, una Lullaby cantata con un tale misto di rassegnazione e risentimento che ci sarebbe da fidanzarsi e mollarsi malamente solo per spammarla sulla bacheca dell’ex. Punti bonus per l’edizione deluxe: Scarlet è una delle ballate migliori dei Delain, Don’t Let Go è un altro shakeraculo di prim’ordine, e anche il materiale live si difende bene, specie un’ottima Sever finalmente libera dalla presenza pestilenziale di Marco Hietala.
Speaking of which, peccato solo per l’unico filler (My Masquerade, ma è destino che in ogni album dei Delain ce ne sia uno, e comunque la versione live del bonus disc è molto migliore) e il ritorno, appunto, del funesto Hietala, che a ben due canzoni non aggiunge nulla se non la sua ormai agghiacciante afonia. Nulla da dire sugli altri due ospiti, un George Oosthoek forse ormai un po’ affaticato ma che non guasta, e una Alissa White-Gluz che torna a farmi piaciucchiare il growl. Un altro comparto che lascia un po’ a desiderare sono i testi: Charlotte si cimenta in molti argomenti di rilevanza sociale (psicofarmaci, anoressia, eticità della nutrizione, limitatezza delle risorse naturali), ma li affronta con l’atteggiamento preachy e la superficialità irritante di quei post con immagine su Facebook che finiscono per far oscurare chi li condivide dal feed; dovrebbe davvero restare sui territori che conosce, ovvero incubi e break up, dato che lì ha tirato fuori dei piccoli capolavori – addirittura, in Lullaby riesce a infilare una metafora sulle sirene senza risultare banale e scontata come certe paladine della mitologia de noartri.
Oh, e a proposito Charlotte, non do piacere al mio palato col sangue degli altri: la carne mi piace ben cotta.
Preferite: Lullaby, Tragedy Of The Commons, Here Come The Vultures

A War Of Our OwnStream of Passion
A War Of Our Own – Stream of Passion
Partiamo con la nota di demerito: è un classico album degli Stream of Passion. C’è tutto ciò che già ci si aspetta da loro, dalle influenze latino-americane (purtroppo ridotte rispetto a Darker Days) alla tipica progressione di accordi e i cambi di tempo che caratterizza le loro melodie, con poco o nulla di nuovo; magari c’è qualche influenza prog più accentuata, che necessita però di un po’ di assimilazione per essere notata. Altro problema, è un po’ lungo: delle quattordici canzoni, almeno un paio avrebbero potute farle fuori (Burning Star e Out Of The Darkness) e l’album ne avrebbe guadagnato.
Nota di merito: tutto il resto. È un album ben fatto e la formula, per quanto un po’ usurata, funziona ancora perfettamente. Tolte le due canzoni di cui sopra, tutte le altre sono oggettivamente molto belle, e se anche qualcuna sembra inizialmente non funzionare, nessuna scade e c’è sempre qualche piccola sorpresa che la salva. Exile, ad esempio, parte malissimo con un riff di chitarra che più insipido non si può, ma il ritornello la trasforma in una vera perla; For You si stacca subito dal cliché delle ballate al piano grazie a suoni filtrati che la rendono quasi spettrale; Delirio ripropone la fusione fra ritmi latini e metal, ma dando più enfasi ai primi di quanto sia stato fatto in passato. In generale, se c’è qualche strofa un po’ loffia o che richiama il passato, i ritornelli fanno sciogliere il cuore. E poi c’è Marcela, che la fa da padrona con una performance da brivido (e, come sempre, fa sembrare quella linguaccia cacofonica ascoltabile), sostenuta da un trionfo di pianoforte che impreziosisce il tappeto di chitarre. Nel complesso è anche un album molto sobrio e privo di tecnicismi inutili e fini a se stessi, per il quale vale la stessa nota di merito di Emilie Autumn e Leandra negli anni scorsi: solo perché Marcela è un’ottima violinista, non significa che debba infilare assoli di violino in ogni canzone.
Probabilmente un altro album su questo genere sarebbe ridondante e per il futuro ci si augura un po’ di coraggio innovatore in più, ma A War Of Our Own ha ancora molto da aggiungere alla discografia della band: il sapore “vintage” dell’insieme viene controbilanciato perfettamente dalle singole tracce, che gli permettono di reggere perfettamente la “concorrenza” dei predecessori e avere un’identità personale. E il merito di ciò non è sicuramente di arrangiamenti pretenziosi che tentano di mascherare mancanza di idee (come accade a certe band dedite al riciclo), ma del songwriting in sé: basta ascoltare le versioni semiacustiche delle canzoni, che la band pubblica di tanto in tanto su youtube, per scoprire che i pezzi sono validi con o senza chitarre elettriche o altri orpelli di produzione.
Preferite: Delirio, For You, Exile

The Quantum EnigmaEpica
The Quantum Enigma – Epica
Oggigiorno, il symphonic metal è un genere insidioso da suonare. Ormai tutto è stato detto e fatto, per cui il genere stesso si è praticamente spaccato a metà, con alcune band che hanno optato per un sound “alternativo”, virando verso il pop, riducendo le orchestre e gli elementi classici a favore dell’elettronica, e altre che si mantengono “mainstream” e continuano a riscaldare la stessa minestra, aggiungendo strati e strati di orchestra per tentare di suonare sempre più “colte”. Anche se questo è stato l’anno della nostalgia, con molti che hanno guardato al passato, la differenza fra chi propone nuove idee e chi invece si ricicla è sempre netta. (Apriamo una piccola parentesi: il genere non è radiofonico e non lo diventerà mai; la sua nicchia commerciale è l’attuale pubblico, che ha per lo più dei grossi paraocchi. Per cui, i termini “alternativo” e “mainstream” vanno usati invertiti: il pop è un’influenza alternativa che porta novità, mentre l’orchestrina sanremese e le menate pseudo-classiche, ormai abusate, sono il mainstream).
Fatta questa doverosa premessa, collocare gli Epica in questo panorama è molto ostico. Pur seguendo un’evoluzione costante negli anni, nemmeno stavolta sono arrivati a quella brusca svolta che molti altri hanno sentito necessaria per non impantanarsi, e hanno invece continuato sulla strada del symphonic “mainstream”, con risultati… spettacolari, a dir poco. Perché se le lodi sono meritate da chi si rinnova sperimentando, a maggior ragione sono dovute a chi riesce a svecchiare il genere ricomponendo i pezzi dello stesso puzzle con tanta maestria da renderlo irriconoscibile.
The Quantum Enigma è il primo album symphonic metal propriamente detto che ascolto con enorme piacere da anni a questa parte. Dopo Requiem For The Indifferent, che alla lunga ha sofferto un po’ dell’essere rimasto ancorato al vecchio genere, The Quantum Enigma lo smonta completamente e lo riassembla sotto un’ottica più matura e sobria. È un album che viaggia costantemente sul filo del rasoio, ma sempre a un passo di sicurezza da una nostalgia potenzialmente disastrosa. E anzi, ne fa tesoro: attinge a piene mani da un decennio e mezzo di symphonic metal, ma sceglie con cura cosa prendere e cosa lasciare nel baratro, incastonandone il meglio in un sound ricco, ispirato e moderno. Basti pensare all’uso dei due grandi topos del symphonic metal: l’orchestra e il coro. Entrambi sono pressoché onnipresenti, ma mai, mai ridondanti. La parte strumentale è per lo più affidata alle chitarre, che non si limitano a ripetere quattro riff insipidi o infilare i soliti assoli d’ordinanza nel bridge, ma reggono il peso delle composizioni pur evitando inutili tecnicismi fini a se stessi: l’orchestra va inserirsi in un contesto già vivace e intrecciarsi ad esso, fungendo da completamento a melodie già ricche e dinamiche, piuttosto che da filler. Anche i cori, l’altra potenziale arma a doppio taglio, sono usati con accortezza: tolta qualche inevitabile sbrodolata in latino, non sono usati come riempitivo della parte strumentale, ma assumono un ruolo attivo nelle linee vocali vere e proprie. Ben lungi dal limitarsi a qualche vocalizzo sparso, arricchiscono, sostengono o completano il cantato anche con interi versi, a seconda dei casi. E stiamo parlando di linee vocali estremamente ben calibrate, catchy al punto giusto e complesse quanto basta, mai scontate né prolisse. Altra nota decisamente positiva è la prevalenza della Simoncina e un uso molto centellinato del growl di Mark, messo solo dove strettamente necessario (i MaYaN sono serviti a qualcosa, a quanto pare). Simone, inutile dirlo, ha rivelato tutto il potenziale che i detrattori le hanno messo in dubbio per anni e sfoggiato le parti più estreme del suo registro (che riesce anche a eseguirle alla perfezione anche live).
Ora, non dico che per il symphonic metal ci sia ancora speranza, ma qualche band nel panorama è ancora sana e sa combinare elementi che potrebbero essere scontatissimi in maniera molto ispirata. Potremmo dire lo stesso dei “rivali” finlandesi Nightwish (cit. colta), ma la differenza sostanziale è che gli Epica l’orchestra e il coro li usano per completare dei brani già ricchi e vivi di loro, non per tappare i buchi lasciati dal “deficit di originalità”. Sono parte integrante del tessuto musicale, non semplici iniezioni di botulino per nascondere i segni del tempo di una band ormai giunta alla terza età.
Preferite: Canvas Of Life, Chemical Insomnia, Omen – The Ghoulish Malady

In Cold BloodWhite Sea
In Cold Blood – White Sea
Temo che i The Romanovs mi mancheranno sempre, ma Morgan Kibby, qualsiasi sia l’alias che utilizza al momento, è sempre una garanzia e non delude mai. Chiusa la parentesi electro-indie dell’EP This Frontier con cui ha inaugurato il nuovo moniker, Morgan si è spinta più in là nell’elettronica, a tratti anche mainstream, con notevoli influenze degli ormai onnipresenti Anni Ottanta. Che insomma, detta così sembra la descrizione di un qualsiasi album puttanpop degli ultimi anni, ma Morgan ha dalla sua un songwriting inconfondibile, una classe innata negli arrangiamenti e, ovviamente, la sua voce da brivido, e riesce così a rumescolare le carte in tavola. Le canzoni meno interessanti, comunque molto godibili, sono quelle che imitano maggiormente la dance mainstream, come Future Husbands Past Lives e Warsaw; per il resto, i ritmi danzerecci si innestano nel tipico songwriting poliedrico e imprevedibile di Morgan, regalando episodi notevoli: la magnifica polifonia di They Don’t Know, una Prague che fa ballare e emozionare insieme, le due diversissime ballad – For My Love con il suo crescendo dance e Small December col suo sound minimal e semiacustico. Notevoli anche le influenze industrial di Flash, l’emozionante semi-ballad It Will End In Disaster, e NYC Loves You, semplicemente una delle canzoni più commoventi che abbia mai ascoltato. Insomma, un ottimo mix di gradazioni di synthpop su un songwriting più orientato al cantautorato.
Pollici in su anche per i testi, che spaziano in maniera ora più esplicita, ora più tongue-in-cheek, fra i vari aspetti di amore, sesso e le loro varie combinazioni: da una parte, la passione per il sesso che i fan dei The Romanovs conoscono bene, dall’altra le conseguenze della fine di una relazione, dalla rabbia (Flash) alla rassegnazione (Small December) e l’accettazione (For My Love), fino alla fragilità di NYC Loves You. Una bella carrellata su sentimenti universali in cui è facile immedesimarsi, accompagnati da ottime melodie e arrangiamenti che valorizzano il mood delle canzoni. Ben fatto!
Preferite: NYC Loves You, Prague, Small December

The Inevitable EndRöyksopp
The Inevitable End – Röyksopp
Non credo di aver ben capito le intenzioni discografiche dei Röyksopp per il futuro: parlano di ultimo album dal formato classico, ma di non avere intenzione di smettere di fare musica. Che vogliano dar via la musica gratis una canzone per volta, darsi solo ai remix o chissà cosa, comunque, il “formato classico” lo abbandonano decisamente col botto. The Inevitable End è infatti uno dei loro dischi migliori, se non il migliore in assoluto. Dodici canzoni – considerando solo il disco 1 – pressoché perfette che coprono un ampio spettro di mood e stili elettronici, raggiungendo quel perfetto equilibrio fra varietà e coesione che spesso è difficile ottenere. In un certo senso, The Inevitable End è un album che tira le somme di quanto fatto fin qui dal duo norvegese: le reminescenze degli album passati sono evidenti, dal rilassante calore di Melody A.M. (Sordid Affair, Thank You) alla malinconia di The Understanding (Conpulsion, Rong, I Had This Thing), fino alla vitalità di Junior (Save Me, Running To The Sea) e la sobrietà di Senior (Coup De Grace, Here She Comes); tuttavia, l’amalgama suona fresco e ispirato, rielaborato con maturità. Nessuna canzone costituisce un tallone d’Achille. La versione T.I.E. di Monument, ad esempio, non si avvicina alla magnificenza dell’originale dell’EP Do It Again ma, nel suo essere più elettronica e meno ambientale, acquista un’identità propria e si inserisce nel sound dell’album; Running To The Sea, una canzone che ho ascoltato letteralmente centinaia di volte nel giro di due anni, è rimasterizzata e presenta qualche piccola differenza che la rende sorprendente perfino a chi la conosceva a memoria come me; la traccia strumentale, Coup De Grace, è ben strutturata e non ripete gli errori della prolissa Inside The Idle Hour Club, e perfino Rong, due minuti e mezzo di Robyn che ripete “What the fuck is wrong with you?”, è resa interessante dagli ottimi archi.
A proposito di ospiti, oltre all’ormai inevitabile Robyn che, comunque, è ben contestualizzata (Monument e, appunto, Rong), e a una seconda collaborazione con una magnifica Susanne Sundfør (Save Me, oltre all’iconica Running To The Sea), abbiamo anche Man Without Country (Sordid Affair) e quella che si sta rivelando come la nuova partnership d’oro dei Röyksopp, Jamie McDermott dei The Irrepressibles, che canta in ben tre canzoni: You Know I Have To Go (una taccia che incorpora elementi tipicamente Irrepressibles nel sound dei Röyksopp), Compulsion e I Had This Thing. La presenza degli ospiti contribuisce alla varietà del disco: in ogni canzone emergere la personalità artistica di ciascuno, che la musica della band “ospite” incastona in un contesto unitario e coerente senza però soffocarla. Se questo è il modo in cui i Röyksopp salutano l’era dei full length, per certi versi è un peccato, perché la formula è ancora perfettamente vitale e in grado di dare di più in futuro; ma comunque hanno promesso di non svanire dalle scene, per cui possiamo ancora sperare.
Preferite: Running To The Sea, Save Me, I Had This Thing

Brutal RomanticBrooke Fraser
Brutal Romantic – Brooke Fraser
Reinventarsi non è mai facile, specie se si è una cantautrice che fa parte di quella sfera di pop indipendente che ultimamente si sta sovrasaturando ma non si ha dietro un entourage di produttori dall’occhio attento ai nuovi trend che fanno il lavoro sporco. E anche in quel caso, il risultato non sempre è garantito e può risultare forzato e insipido. Questo fortunatamente non è il caso di Brooke Fraser, che ha fatto fortuna con un pop molto intimista e per lo più acustico, ma che per il nuovo album ha sentito la necessità di cambiare direzione e includere vistose influenze elettroniche nel suo sound.
E Brutal Romantic si configura proprio come una perfetta sintesi fra il songwriting tradizionale e profondo del passato e un arrangiamento elettronico molto catchy al passo con i tempi. Nessuna delle scelte stilistiche, per quanto al di fuori della “comfort zone” di Brooke, penalizza i brani, che vengono sostenuti dalla stratificazione di strumenti invece che esserne annegati, segno che il cambio di direzione è stato oculato e non un tentativo di conformarsi al trend predominante. La palette emotiva è molto ricca, con canzoni oscure e introspettive come Psychosocial e Bloodrush arricchite da filtri vocali e suoni elettronici graffiati che ammiccano quasi all’industrial, altre più ottimiste come Kings & Queens o Thunder enfatizzate da beat trascinanti e vivaci, e altre più intime e dolci, come Brutal Romance, Je Suis Pret, New Histories, New Year’s Eve e la magnifica Magical Machine, sostenute ora da orchestrazioni solenni ma mai esagerate, ora da qualche accenno di chitarra, ora da una strumentazione più minimale, il tutto condito da spruzzate di elettronica più discrete. Grande punto di forza dell’album sono ovviamente le linee vocali e la performance canora di Brooke, il cui timbro distintivo ed espressività sono sempre riconoscibili e al top, anche dietro alle distorsioni o in mezzo agli arrangiamenti corali. Ottimi anche i testi, ora ricchi di immagini quasi crude, ora di metafore ben calibrate e per nulla scontate, ora più diretti.
Insomma, Brutal Romance è un disco ricco di sostanza impacchettata in una confezione scintillante che la valorizza. Se l’indie pop contemporaneo dovesse avere manifesto, Brooke Fraser ne sarebbe la poster girl ideale. Non posso che augurarle tutto il successo che merita!
Preferite: Magical Machine, Je Suis Pret, Brutal Romance

Blueiamamiwhoami
Blue – iamamiwhoami
Ogni volta che iamamiwhoami pubblica qualcosa di nuovo, mi sento sempre vecchio: da collezionista quale sono, amo da morire il formato cd, da impilare in ordine nella mia collezione, e il digitale da scaricare o rippare e mettere nella mia libreria iTunes archivizzata in modo maniacale. Insomma, mi piace possedere la musica che ascolto e coccolarla, fisicamente o sul mio hard disk. Beh, il progetto capitanato da Jonna Lee trascende tutto ciò per definizione, presentandosi per prima cosa come un lavoro audiovisivo di cui i video periodicamente pubblicati su YouTube costituiscono un elemento fondamentale; il nuovo lavoro porta il tutto al livello successivo con The Blue Island, un sito web in cui l’esperienza musicale diventa interattiva e comunitaria, sfruttando appieno cavi ed etere per soverchiare tutto ciò a cui sono abituato. Fatta questa doverosa premessa, comunque, Blue funziona anche come album in senso classico, ed è proprio di questo formato, nell’edizione in dieci tracce, che andrò ad occuparmi (e senza quindi i sette interludi di The Blue Island, che ascolterò separatamente per assecondare i miei OCD).
Col tempo, fare musica sperimentale può portare a una certa sterilità artistica, perché si rischia di chiudersi nello schema dei propri esperimenti e diventare, paradossalmente, prevedibili. Jonna Lee ha aggirato alla perfezione questo pericolo, continuando sulla falsariga dei precedenti Bounty e Kin ma portando una ventata di freschezza e diversità al proprio sound. Il minimalismo e i suoni elettronici più sperimentali sopravvivono in canzoni come Ripple e Tap Your Glass, mentre in altre canzoni ci sono aperture a sonorità più pop, come in Vista e Fountain. Grande punto di forza dell’album è l’utilizzo che queste variazioni del sound hanno: non come semplici esercizi di stile, ma per accentuare l’espressività emotiva dei brani.
Comunque, la generale “apertura al mainstream” è evidente un po’ su tutti i livelli del progetto, comprese le copertine dell’album e dei singoli, meno minimali e più descrittive che in passato. E, non ultimo, nel comparto vocale. Molto gradito è infatti l’utilizzo delle vocals di Jonna, diverso rispetto al passato, con melodie più complesse e dinamiche, ma proprio per questo più coinvolgenti e orecchiabili, e fantastici momenti di polifonia layerizzata, specialmente in Blue Blue e la magnifica Chasing Kites. Ottimi come sempre anche i testuali, che su metafore legate al mondo acquatico, marino o del ghiaccio, il filo che unisce le dieci canzoni e i relativi video, costruisce immagini a tratti astratte, a tratti profondamente emotive, che sono tipiche del songwriting di Jonna Lee.
Per concludere, ora che il nuovo video, Shadowshow, è online, consiglio vivamente di farsi una maratona audiovisiva, oltre ad ascoltare semplicemente l’album: la sinestesia che iamamiwhoami riesce a creare è sempre straordinaria.
Preferite: Chasing Kites, The Last Dancer, Blue Blue

Make A ShadowMeg Myers
Make A Shadow – Meg Myers
Less is more” sembra essere il nuovo motto degli artisti indipendenti. Così, a due anni dal debutto di sei tracce più remix, Daughter In The Choir, Meg Myers propone, invece che un full length, un nuovo EP. Una scelta che potrebbe essere azzardata, visto che cinque tracce sono pochine, ma che si rivela invece vincente: Make A Shadow è infatti breve ma essenziale, composto interamente da canzoni pressoché perfette e prive di difetti strutturali. Il genere è un pop-rock molto graffiante e introspettivo, ma più raffinato rispetto al debutto: gli arrangiamenti sono più curati senza risultare overprodotti, il songwriting è più maturo senza perdere d’incisività, la struttura più bilanciata senza scadere nel prevedibile. La performance vocale di Meg è sempre magistrale e passa facilmente dalla sensualità alla disperazione, dalla rabbia letteralmente gridata alla malinconia, dal sarcasmo alla dolcezza senza sbagliare nemmeno un colpo. Notevoli anche i testi, anche loro più fini che in precedenza, ma sempre diretti e viscerali, ora struggenti nella loro malinconia, ora pungenti nel loro sarcasmo. Purtroppo c’è poco da dire perché il disco è breve, ma è innegabile che la stella di Meg sia in piena e meritatissima ascesa.
Preferite: Heart Heart Head, The Morning After, Desire

NewsFreddie Dickson
News – Freddie Dickson
Ok, questa moda degli EP inizia ad essere un po’ fastidiosa: certo, in due anni Freddie Dickson ha fatto uscire nove canzoni, l’equivalente di un full length, ma a rate, cosa che un po’ scoccia. Comunque, è molto interessane notare come in così poco tempo, e in piena lavorazione di un full length, Freddie sia riuscito a portare una certa dose di innovazione nel sound. Se paragonato a Shut Us Down, News mostra infatti un lato inedito della sua musica sia in termini di genere che di mood: la base è sempre un indie pop dai toni molto intimistici, ma il minimalismo del debutto ha lasciato il posto a una vena più soft rock, in cui chitarre ariose ma robuste sostengono le canzoni rendendole più stratificate e complesse che in passato. E, in generale, l’EP risulta più energico rispetto al precedente: sebbene le lyrics siano ancora malinconiche, la musica è più vivace, sia in termini di tonalità e ritmo, sia proprio come umore. Ciò crea un effetto quasi ossimorico rispetto all’interpretazione vocale, che si mantiene ancora malinconica. E perfino una canzone come You Know How, che di allegro non ha nulla, porta con sé un’energia nuova. Questo fa guadagnare molti punti a Freddie che, essendo un esordiente, avrebbe potuto continuare a sfruttare ancora l’etichetta da “Lagna del Rey al maschile” che i soliti critici ignoranti gli hanno affibbiato. Il fatto che già agli inizi non si adagi sugli allori e non ristagni promette molto bene per il futuro.
Preferite: You Know How, All Means Something

Massive AddictiveAmaranthe
Massive Addictive – Amaranthe
Col recente diffondersi, nella scena female-fronted, dell’ibridazione fra metal e pop, gli Amaranthe, che sono praticamente dipinti come i portabandiera del fenomeno, mi hanno sempre stuzzicato un po’; ma, fra una cosa e l’altra, non mi sono mai messo ad ascoltarli seriamente. Con la scusa del nuovo album, mi sono fatto anche un tour de force dei loro dischi precedenti, così da avere una prospettiva da cui valutarlo. E devo dire che ciò me lo ha fatto apprezzare ancora di più, perché trovo che finalmente gli Amaranthe abbiano trovato il sound a cui miravano. Negli album precedenti, il problema principale era che la band si sforzava davvero, ma davvero troppo rispetto a colleghi come Delain, Nemesea e, volendo, i Within Temptation: loro scrivono canzoni pop, le arrangiano in chiave metal, ed ecco che tirano fuori brani che restano in testa e non ne escono più. Nei primi due album, invece, gli Amaranthe hanno messo talmente tanto impegno nell’essere metal a tutti i costi, ma anche pop a tutti i costi, e poi mischiare le cose a tutti i costi, che troppo spesso il risultato è diventato un po’ caotico: melodie catchy appesantite da troppo tecnicismo gratuito (specie nel self-titled), brani tecnicamente interessanti banalizzati da melodie troppo insipide (specie in The Nexus), così che invece che costruirsi un’identità propria erano finiti per non essere né carne né pesce. In Massive Addictive, la sintesi fra metal e pop è invece riuscita alla perfezione e le due componenti si esaltano e completano alla perfezione: le canzoni di impronta più catchy (Drop Dead Cynical, Digital World) sono rese interessanti da una parte metal complessa ma discreta, mentre le canzoni più heavy (Unreal, Danger Zone, Skyline) sono rese più accessibili da melodie al limite del radiofonico ma mai scontate. Notevole anche l’ampiezza delle influenze, specie nuove, che vanno dalla dupstep di Digital World all’hip-hop di Danger Zone (le strofe ritmicamente sono vero e proprio rap fatto col growl), col power metal, un tempo predominante, praticamente ridotto alle sole Skyline e An Ordinary Abnormality. Certo, i punti oscuri non mancano: le voci sono decisamente overprodotte, tanto da suonare un po’ impersonali in alcuni momenti e sfumare l’una nell’altra quando si uniscono; e le ballate, il punto di forza degli album precedenti, qui sono due, ma entrambe un po’ forzate e sentimentali a tutti i costi. Ma, tutto sommato, anche loro sono piacevoli, facendo sì che su tutto il disco non ci sia nemmeno una canzone che non sia azzeccata e fottutamente coinvolgente. Massive Addictive, come da titolo!
Preferite: Exhale, Danger Zone, Drop Dead Cynical

Mini WorldIndila
Mini World – Indila
Salvo rare eccezioni, il pop francese al femminile ha da sempre una marcia in più rispetto alle molte delle sue controparti internazioni (quella italiana in particolare): è molto sofisticato pur rimanendo orecchiabile, le cantanti hanno voci inconfondibili e sono per lo più tecnicamente preparate, ma soprattutto è un genere molto eclettico e aperto a influenze eterogenee. Questi punti di forza trovano una perfetta incarnazione nell’ottimo debutto di Indila, cantante di origini algerine-cambogiane-egiziane-indiane-chipiùnehapiùnemetta già famosa in patria per numerose collaborazioni per lo più in campo R&B. E ora che comincia a camminare sulle sue gambe, tanto per cominciare fa tesoro della sua eredità multietnica: su un impianto che è tipicamente pop francese non solo inserisce melodie che richiamano l’oriente, ma anche un registro vocale tipicamente arabeggiante (soprattutto su Ego e Tourner Dans Le Vide). Non mancano le influenze più disparate anche fra i vari generi della musica occidentale, che spesso convivono nella stessa canzone: la tipica chanson fançaise di Love Story e Comme Un Bateau, l’europop danzereccio di Run Run, e perfino qualche ricorrente occhiolino a sonorità più familiarità a noi (ex) darkettini con cori, carillon e violini (Boîte En Argent, Derniere Danse, Ego, S.O.S., Mini World). Il tutto perfettamente amalgamato in un disco vario ma che conserva la sua coerenza di fondo. Notevole anche la performance vocale di Indila: oltre alle già citate suggestioni orientali, si destreggia magnificamente fra un tono più dolce e “bubblegum” e uno più profondo e malinconico (praticamente ciò che vorrebbe fare Lagna del Rey, solo che Indila ci riesce), aggiungendo ulteriore varietà e offrendo un’interpretazione sempre adeguata al mood delle canzoni. Insomma, magari si vedessero debutti simili in Italia…
Preferite: Mini World, Ego, Boîte En Argent

Unrepentant GeraldinesTori Amos
Unrepentant Geraldines – Tori Amos
Lo ammetto: della discografia di Tori Amos ho una conoscenza un po’ a macchia di leopardo e per sentito dire, ma mi fido del giudizio dei suoi fan sul fatto che è solo negli ultimi anni che ha iniziato a riprendersi da un brutto calo artistico. Da questo punto di vista, Unrepentant Geraldines acquista un ulteriore valore per i fan di vecchia data; ma anche per un ascoltatore meno esperto, si tratta di una vera e propria perla di album. Tanto per cominciare, la voce di Tori è in perfetta forma, sia nella tecnica che nell’espressività (vero, Midwinter Graces?), e si accompagna in maniera simbiotica alla musica: da una parte, le melodie forniscono un ottimo palco per la sua performance vocale, dall’altra il cantato completa i brani senza distrarre dal loro impatto emotivo. Il quale non è forzato giù per le orecchie dell’ascoltatore con accorgimenti pretenziosi o lyrics stereotipate, ma è costruito con il semplice uso delle melodie, della struttura e degli strumenti. Le ballate per pianoforte emozionano perché sono minimali, le venature folcloristiche servono a raccontare storie e non a fingere ricercatezza, e i virtuosismi, sia vocali che al pianoforte, accompagnano e rafforzano il climax delle canzoni piuttosto che mettere gratuitamente in mostra le doti di Tori. Perfino le tracce che destano più perplessità, come Giant’s Rolling Pin, Promise o Rose Dover, hanno un loro perché: possono piacere o non piacere, ma le melodie, gli arrangiamenti e il mood sono perfettamente funzionali al messaggio che vogliono trasportare.
Certo, parlando più in generale, un paio di arrangiamenti erano forse evitabili o migliorabili: buona parte dei filtri vocali, fortunatamente pochi, sono ridondanti – e la voce di Tori non ne avrebbe comunque bisogno – così come la batteria digitale non sortisce l’effetto che avrebbe avuto quella vera, ma stiamo parlando del pelo nell’uovo, più che di qualcosa che rovina veramente l’album: per la maggior parte, si tratta di canzoni piuttosto minimali, senza sbavature inutili, in cui sono il pianoforte e la voce a farla da padroni. Insomma, la formula trademark di Tori Amos, quella autentica, che porta i risultati migliori.
Preferite: Wild Way, Forest Of Glass, Invisible Boy

1000 Forms Of FearSia
1000 Forms Of Fear – Sia
Ascoltare il disco solista di un’artista eclettica che presta il suo songwriting e la sua voce agli artisti e generi più disparati è sempre un’esperienza interessante, e non fa eccezione nemmeno Sia, il cui ventaglio di collaborazioni come songwriter o featured vocalist va da David Guetta a Katie Noonan & The Captains passando per Beyoncé. Sesto di una carriera solista che mi affretterò ad approfondire, 1000 Forms Of Fear è un album poliedrico che, grazie a un songwriting ricco e ispirato, riesce a raggiungere il giusto equilibrio fra easy-listening e classy, muovendosi agevolmente fra le sfumature di pop più varie – dagli accenni di R&B di Chandelier alle electro-ballad Eye Of The Needle e Fire Meet Gasoline, o semiacustiche come Straight For The Knife, passando per il pop-rock di Hostage, la dance di Free The Animal e momenti più minimali e sperimentali come Cellophane e Fair Game. Un po’ meno riuscito è forse il tentativo di Sia di rendere la sua performance canora altrettanto variegata. Dal punto di vista vocale, è una di quelle cantanti che o si ama e si accetta così com’è, o si odia: in più di un momento nel corso dell’album, diventa nasale, rauca o stridula, addirittura al punto di avere piccoli ma evidenti spasmi e impastare la dizione. Ma se sul pop-rock di Hostage e nel sound minimal di Fair Game può risultare un po’ fastidiosa, per lo più riesce davvero a enfatizzare l’espressività, basta sentire Chandelier una volta per rendersene conto. Insomma, un po’ come Emilie Autumn riesce a compensare la preparazione scarsa e, anzi, metterla in qualche modo a frutto.
Molto interessante anche l’aspetto testuale dell’album e il rapporto fra le lyrics e il titolo: è un viaggio che comincia con Chandelier, la ricerca di un conforto finto ed effimero nell’alcool e in uno stile di vita sregolato e solitario, affrontando la paura dell’amore, sia di chi ama troppo che di chi non riesce a farlo, della solitudine, della fragilità, del dolore, di staccarsi da una dipendenza (tutti temi che riflettono la vita privata di Sia) per poi chiudere il cerchio con Dressed In Black, la scoperta di un conforto vero e duraturo in un altro essere umano. Non posso credere di aver appena scritto una cosa del genere senza vomitare arcobaleni, ma dal punto di vista strutturale funziona perfettamente e rende l’album un’esperienza molto soddisfacente.
Preferite: Chandelier, Dressed In Black, Fire Meet Gasoline

ShineAnette Olzon
Shine – Anette Olzon
Diciamolo tutti in coro: era ora. Era ora che Anette mollasse il symphonic metal, un genere che non la valorizza affatto; era ora che si levasse di mezzo i Nightwish, troppo concentrati sui soldi facili per darle spazio; ed era ora che smettesse di sfornare figli e tirasse fuori quest’album che ci aveva promesso da anni. Detto ciò, Shine non sarà l’album rivelazione del 2014, ma è un buon debutto solista che, tanto per cominciare, ci presenta una Anette finalmente a suo agio su linee vocali adatte a lei. Un disco pop-rock qualitativamente all’altezza degli standard nordici e molto gradevole che, sebbene forse un po’ debole nel complesso, ha il pregio di non avere nessuna canzone che non funziona di per sé. Tutte, chi per un verso e chi per l’altro, hanno qualche piccola sorpresa, qualche arrangiamento inaspettato, una melodia che resta fissa in mente e non le fa passare inosservate. Le influenze vanno dal pop-rock al folk, passando per qualche episodio un po’ più orchestrale che, però, non richiama lo sfortunato passato discografico di Anette con i suoi annessi e connessi. Perché siamo sinceri, un po’ è inevitabile fare il confronto con le due “colleghe”. Ma anche qui, Anette esce a testa alta: da una parte, l’album è molto onesto, segna un buon punto di partenza perché si dedichi a una musica propria, si sente che è ispirato e non è l’ennesimo tentativo di mungere la Vacca Naituiss (vero, Tamarrja?). Dall’altra, si prende sul serio il tanto che basta per essere un buon disco, ma senza sbrodolarsi nel tentativo di darsi più importanza di quella che può avere, a differenza del Robo dei Paperi della Tuomassa. In sostanza, pur non essendo un capolavoro, è una piacevole raccolta di belle canzoni e costituisce un buon punto di partenza per la carriera solista della nostra Anette.
Preferite: Invincible, Like A Show Inside My Head, One Million Faces

Cheek To CheekTony Bennett & Lady Gaga
Shine – Anette Olzon
Hipster copritevi gli occhi, perché sto per ammetterlo candidamente e senza vergogna: quest’album l’ho ascoltato solo per Gaga. Sono una capra in fatto di jazz, non ho una conoscenza approfondita della produzione musicale di Tony Bennett, e molte delle canzoni non le avevo mai sentite prima nonostante siano, credo, dei classici. Riconosco che è un mio limite: si tratta di musica di un’altra generazione. Non la schifo se la incontro, anzi, la ascolto volentieri, ma semplicemente non mi appartiene. In breve, quindi, il mio approccio a quest’album è quello del Little Monster medio: “Mamma Mostro ha fatto qualcosa di nuovo, vediamo un po’ di cosa si tratta”. Tutto ciò non per denigrare il jazz o dire che mi sono fatto piacere l’album a forza solo per Gaga, quanto per motivare perché nel parlarne mi focalizzerò per lo più su di lei: non ho le competenze per valutare la parte strumentale (mi sembra ineccepibile, e del resto Bennett e Gaga dei musicisti bravi se li potranno anche permettere), né cogliere eventuali differenze rispetto ai brani originali.
Tutto quello che posso dire è che Stefani ha provato a fare jazz accanto a Tonny Bennett e l’esperimento è riuscito magnificamente. Con un solo album, ha ha dimostrato che: riesce a muoversi con una disinvoltura ammirevole in un genere che non è il suo; è perfettamente in grado non solo di cantare, ma anche interpretate un repertorio non suo e lontano dal suo abituale modo di scrivere; può amalgamare perfettamente la sua performance vocale con quella di Tony Bennett in un contesto totalmente diverso dai suoi precedenti duetti, senza beat o wub a mascherare le cuciture; sa cantare, ha una voce profonda e calda che copre discretamente l’estensione richiesta dalle canzoni, e sa modularla in modo da dare dinamica al suo cantato (dove, per chi non lo sapesse, “dinamica” è il termine tecnico per indicare i piano, forte eccetera). E diciamolo, canzoni come Lush Life sono parecchio impegnative. So che quest’ultimo punto potrebbe sembrare scontato, specie per chi segue Gaga assiduamente, ma molte di quelle persone che sono rimaste ferme alla sua voce megafiltrata in Just Dance rimarrebbero sorprese da ciò che Gaga mostra di essere davvero in grado di fare su quest’album.
Insomma, Cheek To Cheek è la dimostrazione inconfutabile che Gaga è una cantante e artista valida, in grado di camminare sulle sue gambe senza parrucche e costumi assurdi, filtri vocali e beat elettronici, video sparaflashati e palchi con scenografie immense. Se continua a fare quello è per scelta, non certo perché è un mero prodotto commerciale e non sa fare altro. Alla faccia dei detrattori.
Preferite: Nature Boy, But Beautiful, Lush Life

Let Us BurnWithin Temptation
Let Us Burn – Within Temptation
Sharona Milfona e compagni si sono proprio salvati in corner: erano due anni due che aspettavo che pubblicassero Elements, visto che è stato uno di quei concerti da incorniciare e riascoltare / rivedere in loop, e il fatto che non si sbrigassero a far uscire un live album e/o DVD mi ha sempre dato ai nervi. L’idea di far uscire un doppio CD + doppio DVD con due concerti, però, è una colossale scemenza: senza entrare nel merito del concerto di Amsterdam, essendo io andato a Elements, i tagli di ottime performance come Never-Ending Story e Our Farewell, oltre che le tre cover Titanium, Summertime Sadness e Granade, mi hanno fatto storcere il naso. Specie perché, considerando l’intento celebrativo del concerto, affidare la retrospettiva alla sola Candles è davvero criminale.
Fatta questa doverosa premessa, partiamo con le considerazioni generali. A livello di suono e missaggio entrambi i concerti sono ottimi: perfetta la resa dei singoli strumenti, dell’orchestra su Elements, il tutto ben amalgamato anche col pubblico, che si sente il tanto da dare quella bella vibrazione live che fa saltare sulla sedia e cantare appresso anche da casa, ma senza disturbare. A livello musicale, la band è pressoché ineccepibile: non ci sono strafalcioni degni di nota e i due nuovi arrivati, Mike Coolen alla batteria e quel grandissimo gnocco di Stefan Helleblad alla chitarra, spaccano tantissimo sia sui pezzi nuovi che sui vecchi. Sharon come cantante è quella che è: ha i suoi limiti tecnici e gli errori che si porta avanti un po’ da sempre, ma non è nulla che comprometta la sua performance al punto da renderla inascoltabile; e comunque, compensa le carenze tecniche con la sua proverbiale espressività. Delle due esibizioni, la migliore è sicuramente Elements: Sharon è in forma perfetta, sicura sia sulle note più basse nelle canzoni nuove che sul suo falsetto trademark sui classici. Addirittura, le performance di canzoni come Candles e The Promise sono probabilmente le migliori di sempre. Il discorso peggiora leggermente nel concerto di Amsterdam: lì la troviamo più affaticata e roca, specialmente nelle canzoni più aggressive, e migliora per lo più sul falsetto o nelle canzoni acustiche. Anche qui, comunque, nulla che comprometta l’esibizione nel complesso: ci sono imprecisioni, ma non si ritrova mai davvero senza fiato o visibilmente stonata come certe colleghe.
Per quanto riguarda la setlist e gli arrangiamenti, dei due concerti il più interessante è senza dubbio Elements: la Novecento Orchestra fa un ottimo lavoro, equilibrato e mai sopra le righe perfino su canzoni moderne come Faster o Sinéad, e gli arrangiamenti di molte canzoni già presenti su Black Symphony sono leggermente diversi, rendendo il tutto interessante anche per chi conosce quel DVD a memoria. In più, ai tagli selvaggi sono sopravvissute alcune chicche come una bellissima The Last Dance riarrangiata completamente, una commuovente Say My Name, la già citata Candles e una Sinéad più dance che mai con tanto di mirrorball sul palco. Notevole anche Stand My Ground, una canzone che notoriamente non amo ma che qui spacca da morire. Una pecca (che fu anche del concerto) è l’assenza di Restless che, data l’occasione, fa sentire il suo peso, ma limitandoci strettamente a ciò che è stato suonato non c’è da lamentarsi. Del concerto di Amsterdam sono interessanti per lo più le canzoni di Hydra, specialmente Edge Of The World con i vocalizzi in falsetto di Sharon e un bellissimo lavoro di chitarra sul bridge, e Covered By Roses, che si è rivelata una canzone perfetta dal vivo; ma anche le due piccole perle acustiche verso la fine, Whole World Is Watching e Sinéad.
Nel complesso, quindi, il doppio CD/DVD vale l’ascolto/visione e anche l’acquisto. Certo, sarebbe stato meglio avere i due concerti per intero e ognuno per conto loro, ma ciò che abbiamo non fa di certo schifo.
Preferite (Elements): Say My Name, The Last Dance, Candles
Preferite (Amsterdam): Covered By Roses, Edge Of The World, Sinéad

Bilancio musicale del 2014: Purgatorio

A metà strada fra le atrocità come Ultraviolence e le meraviglie che andremo a vedere nel prossimo post, c’è la triste landa della mediocrità, quella terra di mezzo in cui finiscono tutti quelli che “hanno le capacità ma non si applicano” e quelli che si impegnano ma non riescono a trovare davvero il filo del discorso. Qui di seguito troviamo album ed EP non malvagi ma nemmeno sostanziosi, altri che invece sono buoni ma destano perplessità, altri che sono semplicemente dispersivi e si capiscono da soli. Di ascolti se ne meritano anche più di uno, ma personalmente non mi hanno fatto innamorare.
Vediamo.


Distant SatellitesAnathema
Distant Satellites – Anathema
Curiosando su internet in attesa della spedizione della mia copia del cd, la critica che ho letto più spesso su quest’album è stata l’accusa di voler cavalcare l’onda del Capolavoro Assoluto, Weather Systems. Ora, per quanto ciò sia un giudizio esagerato e un po’ ingiusto… beh, non è nemmeno del tutto scorretto. È vero, The Lost Song part 1 & 2 pescano a piene mani dalle Untouchable, part 1 & 2 (e la 1 non si avvicina neanche lontanamente al loro splendore); e poi ci sono un po’ troppi rimandi a We’re Here Because We’re Here e pure al passato meno recente, cosa che fa un po’ storcere il naso perché non aiuta a farsi l’idea di un disco con un’identità propria. Poi, diciamolo, un capolavoro lo si fa una volta nella carriera – o, per lo meno, una volta ogni tot tempo: in parte, Distant Satellites è condannato proprio dall’ombra di un predecessore irraggiungibile.
Ma anche tralasciando Weather Systems e i giudizi affrettati, Distant Satellites è un po’ l’album delle tante buone intenzioni che non si sono tradotte in fatti. Prese singolarmente, più della metà delle canzoni sono belle; nel complesso, però, faticano a lasciare un’impressione. La seconda canzone-anteprima pubblicata sul web, You’re Not Alone, riassume perfettamente questo aspetto: idea spettacolare, una prima parte da brivido, avrebbe potuto essere un capolavoro; ma dopo un po’ si perde e diventa totalmente sconclusionata. E in effetti, Distant Satellites soffre proprio di carenze strutturali: troppo diluito, un po’ ripetitivo, a tratti prolisso e senza un vero proprio climax e risoluzione. Quest’ultimo aspetto in particolare, per una band che fa dell’impatto emotivo della sua musica un trademark, finisce per penalizzare pesantemente il lavoro. Certo, gli episodi spettacolari non mancano: The Lost Song Part 2, tolto il confronto con la rispettiva Untouchable, è una traccia bellissima, ben strutturata ed estremamente emozionante, così come Anathema, che guarda ancora più al passato; la title track, invece, sperimenta in territori elettronici, e la ballad Ariel tocca tutti i punti giusti per non far pesare i suoi oltre sei minuti. Poi ci sono canzoni che, pur non essendo capolavori, sono belline: Dusk (Dark Is Descending) e, tutto sommato, The Lost Song Part 1. Ma, specie ai primi ascolti, finiscono per annegare fra episodi sconcertanti (la già citata You’re Not Alone), piuttosto scialbi (The Lost Song Part 3), inutili (Firelight, troppo lunga come intro della title track, troppo sconclusionata come traccia a sé stante), per finire con una Take Shelter che, strizzando l’occhio a Dreaming Light, è estremamente loffia per la prima (lunga) metà e, quando finalmente entra nel vivo, invece che arrivare a un picco emotivo si perde nella ripetitività, chiudendo in bruttezza l’album. Inoltre, le performance vocali di Vincent e, quando interviene, Danny Cavanagh non sono fra le migliori della loro carriera, il che non aiuta molto – passi tutto, ma quelle vocali spalancate cosa sono?
Con gli ascolti successivi, lentamente sono le canzoni migliori a emergere, ma la sensazione di un disco sconclusionato e un po’ loffio non sparisce mai del tutto. Ricapitolando, Distant Satellites non è affatto un album da buttare: semplicemente, non funziona nel complesso ed è salvato da singoli episodi che però risaltano meglio se ascoltati da soli. È una ciambella a tratti gustosa, a tratti insipida, ma sicuramente senza il buco.
Preferite: The Lost Song Part 2, Anathema, Distant Satellites

Do It AgainRöyksopp & Robyn
Do It Again – Röyksopp & Robyn
Devo ammettere di non essere un grande estimatore dei precedenti lavori in tandem dei Röyksopp con Robyn. Girl And The Robot è probabilmente la canzone che meno mi piace su Junior, così come None Of Dem, sull’album di Robyn, è piuttosto bruttina. Fosse stato un intero EP con Susanne Sundfør mi sarei strappato le mutande dall’entusiasmo e non avrei aspettato mesi per ascoltarlo perché ho dato priorità ad altro, ma il convento passa questo. E il risultato? Mmh. Tanto per cominciare, Do It Again è un EP e in quanto tale va preso: è breve e ha una struttura semplificata, meno varia rispetto a un album. A livello compositivo e di arrangiamenti, tocca picchi di eccellenza così come di orrore, passando per varie sfumature intermedie. Trattandosi di cinque canzoni, possiamo anche andare con un rapido track by track. Monument è uno dei capolavori assoluti dei Röyksopp, una canzone che i suoi quasi dieci minuti di durata non li fa pesare minimamente: la si ascolta con gran piacere, e quando si avvia soffusamente verso la conclusione si è sorpresi che il tempo sia volato così. D’altro canto, però, Sayit è una delle cose più brutte che abbia mai ascoltato, sicuramente La Canzone Più Brutta di tutta la discografia dei Röyksopp: un concentrato cacofonico di techno buttata lì tanto per, una di quelle che ti fa cambiare sala anche quando sei ubriaco fin sopra i capelli in un club alle quattro del mattino. Do It Again, l’eponimo singolo di lancio, è una canzone carina, piacevole sia da ascoltare che da ballare, ma senza grosse pretese; carino il testo – una descrizione molto onesta di un’amicizia con benefit – e anche la melodia non è male, ma non va molto oltre l’essere orecchiabile. Every Little Thing è una tipica canzone à la Röyksopp, soffusa e calda: sicuramente bella, ma come il duo ne ha sfornate molte negli anni. Inside The Idle Hour Club è infine uno strumentale relativamente inutile, specie nella sua lunghezza che, a differenza dell’opener, pesa tutta. Tende ad essere ripetitiva e perfino prolissa con il poco (ma davvero poco) che ha da dire.
Nel complesso, quindi, l’EP non è malvagio ed è sicuramente sufficiente, ma nemmeno la rivelazione dell’elettronica che i fan di Robyn hanno annunciato al mondo. A livello vocale lei si difende bene, dando la giusta interpretazione emotiva alle canzoni e tutto, ma nel complesso il disco sembra più una raccolta di tre belle canzoni estemporanee e due robi orribili di contorno. Più un singolo esteso estratto da un album più complesso che un EP che cammina sulle sue gambe.
Preferite: Monument, Every Little Thing, Do It Again

AftermathAmy Lee feat. Dave Eggar
Aftermath – Amy Lee feat. Dave Eggar
E vabbè, va preso per quello che è: la colonna sonora di un film indie sfigato. È piacevole da ascoltare anche in assenza del film (onestamente, frega nulla di guardarlo) e fa passare una buona mezz’ora, ma è piuttosto poco sostanzioso. Buona parte delle tracce strumentali, contribuite da Dave Eggar (il violoncellista che andò in tour con gli Evanescence già nel 2006-2007), sono piuttosto interscambiabili e, soprattutto, troppo brevi. Fanno un buon sottofondo mentre si cazzeggia su internet, ma solo un paio restano impresse, come Between Worlds e Voices In My Head, abbastanza lunghe da avere un inizio, uno sviluppo e una conclusione. Fortunatamente ci sono le canzoni vere e proprie a salvare il tutto: Dark Water, un esempio davvero pregevole di brano mediorientale in salsa synthrock su cui canta Malika Zarra; Can’t Stop What’s Coming, che sperimenta più sull’ambient; e i due gioiellini elettronici, una Push The Button tutta dance, con tanto di ansiti sexy che non ti saresti mai aspettato da Amy, e una Lockdown più d’ambiente e che occasionalmente sconfina nell’industrial. La voce di Amy sembra essersi ripresa un po’ dopo gli abissi raggiunti sull’ultimo album degli Evanescence e il rispettivo tour, forse perché finalmente non deve più urlare per farsi sentire in mezzo alla schiacciasassi Hunt&McLawhorn, e fa sperare in performance almeno dignitose in futuro.
In definitiva, come stuzzichino in attesa di un vero debutto solista ci può stare. Basta solo che Amy non faccia passare come al solito ventordici anni prima della prossima release, perché come disco Aftermath non sazia.
Preferite: Lockdown, Push The Button, Dark Water

Pure Adulterated JoyMorning Parade
Pure Adulterated Joy – Morning Parade
C’è qualcosa di sostanzialmente non funzionante nei Morning Parade. Hanno le idee, hanno il talento, ma per quanto mi riguarda non riescono proprio a ingranare. Già il self-titled ha dato questa impressione, e questo secondo full-length la conferma in pieno. Pure Adultered Joy è una raccolta di canzoni per lo più carine, ma a cui manca la scintilla per diventare memorabili. Sulla falsariga del debutto, la parte rock è enfatizzata rispetto alla componente elettronica (e le canzoni in cui ciò è più marcato sono le meno interessanti), la produzione tende a uniformare il tutto e alcune melodie sono un po’ blande, troppo reminescenti del rock britannico più canonico, sia nella progressione degli accordi, sia negli arrangiamenti, specie quelli vocali. Non mancano le highlight, per lo più simil-ballad o pezzi un po’ più synth, ma anche loro vanno più sul “bellino” che sul capolavoro. E dire che la band di potenziale ne ha: prima dell’album di debutto hanno pubblicato una mezza dozzina di singoli (solo due dei quali inclusi nell’album) uno più bello dell’altro, che mostravano un songwriting efficace enfatizzato da arrangiamenti piuttosto originali. C’è da chiedersi che fine abbiano fatto tutte quelle idee. Perfino ai testi, tutto sommato interessanti e per lo più venati di critica sociale verso la Generazione Me senza essere puntigliosi o scontati, manca un po’ il mordente per restare impressi.
In sostanza, l’album non è malvagio, ma nemmeno particolarmente interessante. È riuscito meglio del precedente, ma si mantiene nello stesso limbo di vaga mediocrità, abbastanza ispirato da essere riascoltato ma non tanto da durare nel tempo. Peccato: speriamo che il trend di miglioramento continui e col prossimo si ritorni i fasti pre-esordio.
Preferite: Sharing Cigarettes, Seasick, Culture Vulture

ShelterAlcest
Shelter – Alcest
Il problema di Neige è che è una garanzia: da una parte, sai che va sempre a parare sullo stesso tipo di cose; dall’altra, non riuscirebbe a fare musica brutta nemmeno se lo facesse apposta. Personalmente, speravo in un taglio più netto rispetto all’ormai esausta formula Alcest, ma Neige si è accontentato di eliminare del tutto le influenze black metal per dedicarsi a uno shoegaze più puro e arioso. Oggettivamente, però, la musica è buona e c’è poco da rinfacciargli: la differenza rispetto al passato è affidata per lo più al mood generale, più solare e positivo, con ben pochi punti nostalgici o malinconici, ed è questo che lo salva da un altissimo rischio autoplagio.
Purtroppo, non è un album iconico né particolarmente memorabile: visto che le novità sono così poche, preso in un mood Alcest andrei piuttosto ad ascoltare il sempiterno debutto. Ma senza queste pretese, resta comunque un buon disco con una sua personalità e un suo perché all’interno della discografia della band. Per il futuro però urgono cambiamenti.
Preferite: Opale, L’Éveil Des Muses, Délivrance

Clare MaguireClare Maguire
Clare Maguire – Clare Maguire
Dopo Kari, altro “era ora” per la Claretta, che ha smesso di pettinare le bambole sparando canzoni randomiche su internet a intervalli irregolari e si è decisa a darci almeno un EP. Come era prevedibile dando uno sguardo al suo Tumblr, ha rinnegato il sound synth del debutto per darsi a sonorità vintage e per lo più acustiche, che valorizzano forse meglio la sua voce (per quanto l’abbinamento fra l’elettronica di Light After Dark e il suo contralto corposo fosse comunque intrigante). Certo, un EP di quattro tracce di cui due cover non sazia, ma prendiamolo come un buon esordio per questa nuova era e speriamo non si riattacchi alla bottiglia.
Preferite: Black Coffee, Paper Thin

AntagoniseMaYaN
Clare Maguire – Clare Maguire
Io e i MaYaN non ce la possiamo proprio fare. Un po’ me ne vergogno perché mi sento come uno di quei metallarini che si lagna che gli album non sono “abbastanza metal”, solo al contrario. C’è un sostanziale miglioramento rispetto al debutto, che ricordo solo come un indistinto polpettone di rumore, ma continuo a pensare che i MaYaN siano un totale spreco di tempo e idee che potrebbero benissimo essere investite negli Epica. Con meno prolissità, tecnicismi gratuiti e batteria pestata a tutti i costi, canzoni come Bloodline Forfeit potrebbero benissimo funzionare nella band madre e spiccare molto di più. A conti fatti, stavolta non c’è nulla che non vada davvero. C’è solo una sovrabbondanza di tutto: tecnicismi di chitarra come se piovesse, virtuosismi di batteria assordanti, cambi di tempo fin troppo improvvisi e confusionari… l’unica cosa davvero bilanciata sono le orchestrazioni, che si mantengono discrete sullo sfondo senza appesantire un amalgama già difficile da digerire.
Tralasciando la mia allergia al metal così rumoroso, comunque, i problemi principali di quest’album sono nel comparto vocale: non sono mai stato un gran fan del growl di Mark Jansen, ma diventa quasi piacevole in confronto agli urli svociati del sempre pessimo Henning Basse. La benamata Floor Jansen, che salta fuori qua e là su Burn Your Witches e Redemption, grida quasi più degli altri due messi assieme e non aiuta molto. Si salvano solo Laura Macrì, lodevole sia nei vocalizzi di background che come lead, sia una Marcela Bovio criminalmente mal sfruttata. Ciliegina sulla torta, Mark dà il peggio di sé nei testi, oscillando fra la telecronaca nuda e cruda e il suo atteggiamento da predicatore de noartri. Non che sia una novità, specie ricordando Quarterpast, ma inizia a diventare davvero noioso.
In conclusione, l’album nel complesso non è pessimo, e in alcuni momenti è anche gradevole, ma è eccessivo a livello musicale, palloso a livello testuale, e buona parte delle vocals sono da cestinare. Riconosco lo sbattone tecnico dei musicisti, che lo salvano dall’Inferno, ma non credo che lo riascolterò a breve. Più che una raccolta di musica che ha qualcosa da comunicare, sembra più una vetrina che consente ai musicisti di mostrare quanto sono bravi e sanno suonare veloce. Personalmente, non è questo che cerco quando ascolto qualcosa.

Bilancio musicale del 2014: Inferno

La fine dell’anno è ormai imminente, e così, eccoci qui a tirare le fila di ciò che è avvenuto nel mondo musicale. Il 2014 è stato un album ricchissimo di uscite, alcune attesissime, altre che ci saremmo volentieri risparmiati, altre che sono state una sorpresa, altre ancora una delusione. Come ogni anno, eccomi a mettere le mie cinque copeche in merito, e stavolta divido il tutto in tre post per l’incredibile mole di roba che è uscita – il che è anche il motivo per cui ho soprasseduto su molti album e mi sono limitato a scrivere di quelli che in qualche modo mi interessano.
Ciò detto, suggerirei di cavarci subito il dente e passare subito in rassegna le uscite più brutte dell’anno: una volta superate queste è tutto in discesa. Trattenete il respiro, stiamo per calarci nel peggio del peggio.

VervainLiv Kristine
Vervain – Liv Kristine
La prima grande domanda di quest’album è: perché? Perché solista se il genere è virtualmente lo stesso rock/metal dei Leaves’ Eyes? Certo, alcune differenze ci sono: le canzoni sono generalmente più orientate al pop e all’elettronica che al folk e al symphonic, ma quest’apertura c’è stata anche in Symphonies Of The Night e qui la direzione è la stessa, solo più marcata. Diciamo che forse è meno pretenzioso, ma la linea fra i due progetti resta molto sottile.
Detto questo, in generale l’album è un netto miglioramento rispetto a Libertine (anche se, considerando quanto era brutto quello, non significa poi molto), ma il songwriting e per lo più pigro e ripetitivo, con melodie che oscillano fra il banale e il bruttino e arrangiamenti anacronistici. Liv Kristine cerca a tutti i costi di pescare a piene mani dai Theatre of Tragedy, molto da Aégis e un po’ da Musique, e il tutto risulta già sentito ma di qualità inferiore. Le vocals sono molto più varie rispetto ai lavori recenti dei Leaves’ Eyes, con pochissimo uso della tremenda impostazione lirica farlocca e qualche ritorno al timbro etereo che ha fatto la fortuna di Liv con i Theatre of Tragedy, ma si attesta per lo più su un falsetto nasale e stridulo che non è molto piacevole da sentire – cosa particolarmente evidente su Lotus, una ballata dal sentimentalismo già esasperato, melodia scialba e arrangiamento stereotipato che rappresenta probabilmente il tentativo peggio riuscito di far musica su tutto l’album.
Gli ospiti non aiutano molto la causa. Michelle Darkness su Love Decay passa relativamente inosservato come un semplice Raymond Rohonyi surrogato per fare ancora più Theatre of Tragedy, mentre Doro Pesch su Stronghold Of Angels è abominevole; ingolata al massimo, rauca da rasentare l’afonia, sembra si stia strozzando a ogni sillaba.
Nel complesso l’album non è direttamente da buttare come il predecessore, è semplicemente non necessario. Buona parte delle canzoni non sono davvero orribili, ma scorrono via del tutto abuliche, senza lasciare una reale impressione nell’ascoltatore: né abbastanza catchy da catturare l’attenzione, né tanto sofisticate da essere belle. Vervain, quindi, non aggiunge nulla di nuovo né alla carriera di Liv Kristine, né al panorama musicale in cui si muove. È un’operazione-nostalgia per strappare qualche spicciolo alle vedove dei Theatre of Tragedy approfittando della loro assenza, e probabilmente è uscito sotto brand solista perché un simile grado di scopiazzamento sarebbe stato poco elegante se marketizzato come Leaves’ Eyes. Musicalmente inutile, in sostanza.

SuperstitionThe Birthday Massacre
Superstition – The Birthday Massacre
Posso essere franco? The Birthday Massacre, avete rotto. Superstition è un album che porta il concetto di “ridondanza” a un livello che non pensavo nemmeno fosse possibile. Se già nel 2012 Hide And Seek è stato un album che non aveva nulla da aggiungere a quanto è stato detto e fatto, Superstition scava ancora di più nei soliti cliché del synthrock per adolescenti creepy in calze a righe orizzontali con i poster di Tim Burton in cameretta e diventa davvero inutile. In un certo senso, trovo la cosa irrispettosa verso i fan, perché se è vero che l’innovazione non è il punto forte della scena darkettina, dubito che gli adolescenti di quindici anni fa non siano cresciuti nel frattempo. È abbastanza palese che i The Birthday Massacre, invece che crescere insieme alla loro fanbase, puntano invece al ricambio generazionale e ai sedicenni di oggi, quelli che non sono stati fagocitati dal trend hipster, per continuare a mungere quella nicchia di pubblico senza sforzarsi di proporre idee nuove.
I cliché tipici della band ci sono tutti al gran completo: la copertina viola con le silhouette e le orecchie da coniglio, i rumori ambientali, elettronici e/o industriali che collegano le varie canzoni (cosa che di per sé mi dà fastidio ma, a parte questo, lo sciabordio delle onde, il fischio del vento e lo stillicidio della pioggia puzzavano di vecchio già dieci anni fa), le pseudo-filastrocche sussurrate in maniera creepy, il synth scampanellante… Ma anche tralasciando tutto questo, tralasciando titoli palesemente pigri come Rain (seriamente, nel 2014?), Destroyer, Beyond e The Other Side (siamo darkettini e ci piacciono la morte e la distruzione), Diaries (come se avessimo quindici anni), tralasciando le lyrics stereotipate, anche cercando di decontestualizzarlo, resta comunque un disco estremamente loffio, con linee vocali sciape, progressioni di accordi prevedibili e melodie praticamente intercambiabili con quelle di qualsiasi altro disco dei The Birthday Massacre (provate a canticchiare il ritornello di Pins And Needles su Divide e vedrete). L’unico vero tentativo di evoluzione del sound, già visibile su Hide And Seek, è una minore enfasi della parte rock rispetto ai synth Anni Ottanta, che ha però conseguenze disastrose perché toglie grinta a canzoni a cui già manca la freschezza e la catchiness che ha caratterizzato i primi lavori della band. Non a caso, l’unica canzone davvero interessante è quella che prova ad allontanarsi dal terreno battuto verso l’ambient, ovvero la title track; il resto è una collezione di canzoni facilmente dimenticabili di cui non si sentiva affatto la necessità.

Magic ForestAmberian Dawn
Magic Forest – Amberian Dawn
Trovatemi una band più prolifica degli Amberian Dawn, che dal 2008 a oggi hanno sfornato ben cinque full-length e una compilation di revisitazioni delle canzoni precedenti causa cambio vocalist (se no avrebbero tirato fuori un nuovo album di sicuro). Ci sarebbe quasi da gridare “al genio” se il segreto di questa produzione seriale non fosse stato già chiaro a partire dal secondo album, che è essenzialmente il primo suonato al contrario: per questo motivo, i successivi non mi sono nemmeno preso la sbatta di ascoltarli (e non credo di essermi perso molto). A questo giro ho però deciso di tentare, incuriosito un po’ dal cambio di vocalist, un po’ dalle dichiarazioni della Tuomassa locale (sì, il “compositore” e tastierista della band si chiama Tuomas e adora Paperino) sul fatto che la nuova voce gli ha permesso di fare quello che avrebbe voluto fare sin dall’inizio (dove l’ho già sentito?) e che le linee vocali hanno forti influenze Anni Ottanta. Quest’ultima parte mi ha stuzzicato in particolare, giusto per confermare se, dopo aver tirato fuori il symphonic power a voce lirica nel 2008 quando perfino i Naituiss avevano cambiato stile vocale, gli Amberian Dawn si meritassero davvero il Premio Slowpoke del metal dopo che tutte le altre band sono già passate per gli Eighties da almeno tre-quattro anni.
Beh, partiamo dalla novità: la voce di Capri. Sin dalla prima canzone si rivela generica e monotona come poche, la sua interpretazione è degna delle peggiori serate da karaoke e le tonnellate di filtri che le buttano addosso non aiutano a farsi un’idea della sua reale preparazione tecnica. Altra novità, almeno per i canoni degli Amberian Dawn, è l’arrangiamento: ridimensionate le tastiere simil-orchestrali a favore di suoni più elettronici, anche se in molti casi i due tipi sono stati in qualche modi ibridati dando una fastidiosa impressione di orchestrina campionata da un midi. Il resto è la solita solfa: le melodie, in termini di progressioni di accordi, sono praticamente sempre le stesse, così come non sono cambiate la batteria power, le schitarrate ritmiche e gli immancabili assoli nei bridge, ovviamente sempre ubertecnici perché bisogna far vedere quanto si è bravi. Di tanto in tanto comprare anche qualche parte narrativa parlata/sussurrata, come se non se ne fosse sentite già abbastanza. Magari ci sono più cambi di tempo e di tonalità del solito, ma piuttosto che arricchire i brani rendendoli meno prevedibili, hanno unicamente l’effetto di renderli più confusionari e cacofonici. Fra l’altro, le prime tre canzoni da sole dicono tutto ciò che c’è da dire e le altre non fanno che rimestare quegli stessi schemi e motivi. In breve, è soltanto cambiato qualche ingrediente di una salsa pur sempre sciapa che tenta di condire il solito piatto ormai riscaldato per l’ennesima volta.

The Life And Times Of ScroogeTuomas Holopainen
The Life And Times Of Scrooge – Tuomas Holopainen
Sarò franco: quando è uscito il singolo di lancio, A Lifetime of Adventure (per gli amici A Storytime of Pendulum), già mi pregustavo una stroncatura brutale qui sul blog se l’album si fosse mantenuto sullo stesso livello di masturbazione musicale voglio dire, autocitazionismo. Poi, ascoltando il resto, mi sono reso conto con una certa sorpresa che è talmente loffio da non prestarsi nemmeno a quello. Musicalmente, come prevedibile, il “sogno di una vita” che la Tuomassa ha covato per quattordici anni è la risciacquatura dei piatti degli ultimi tre album dei Naituiss, con l’apice in Cold Heart Of The Klondike, e non aggiunge nulla di nuovo se non qualche tentativo un po’ maldestro di fare dell’ambient (Dreamtime) che si perde in un bicchiere d’acqua e tanta ripetitività. La Kurkela, che è una specie di clone di Anette, non aiuta molto, Tony Kakko è inopportuno come al solito, mentre il resto è una paccottiglia strumentale che, pur essendo gonfiata a dismisura da orchestra & coro dell’immancabile Pip Williams, passa praticamente inosservata. Eppure, con tutti quei rantoli corali, cornamuse e richiami folkeggianti, si prende terribilmente sul serio. Oh, se lo fa. Ed è proprio questo il suo problema principale: il suo voler essere essere molto artistico e impegnato quando, alla fin fine, parla di fumetti. E non sta nemmeno in piedi da solo: probabilmente, come sottofondo alla lettura dell’albo sarebbe anche utile, ma senza gli manca il mordente. Semplicemente, non è di per sé evocativo, e mentre scorre monotono sullo sfondo senza un supporto visivo, al massimo provoca qualche déjà-vu e spinge a chiedersi su quale album dei Naituiss questa o quella canzone sia già stata pubblicata. Il che, credo, rappresenta il fallimento supremo, dato il tipo di lavoro, un tentativo di trasporre una storia e delle immagini in musica. Il secondo, dopo un ImagiAnerum che senza il b-movie non rappresenta nulla.
Oh, visto che ho nominato gli Amberian Dawn prima: provate ad ascoltare l’intro della loro Valkyries (specie la versione 2011, che è abbassata di due toni) e quello di Cold Heart Of The Klondike, e ditemi quanto è squallido da 1 a 10 plagiare una band che non fa altro che scopiazzare la tua.

Beauty & The BeatTarja feat. Mike Terrana
Beauty & The Beat – Tarja feat. Mike Terrana
Qualcuno dovrebbe prendersi la briga di dire alla Tamj che una sola Sarah Brightman è già abbastanza fastidiosa e non ce ne serve una versione metallara che nel calderone del crossover infila anche il rock classico. Del suo album di brani classici e canzoni anni SettantaOttantaBenvenutiHipster (manca solo Lloyd-Weber per completare la Fiera della Baracconaggine) rielaborate con orchestra e coro di cento persone, feat il suo batterista di fiducia Mike Terrana, sentivamo la necessità forse anche meno che del Robo dei Paperi della Tuomassa. Ma tant’è: la Mangiatoia Naituiss è ancora bella piena e c’è posto per tuttE.
Per quanto riguarda il repertorio strumentale, in cui la fa da padrone Terrana, il risultato è mediocre: a differenza di una reinterpretazione in chiave metal come se ne sono sentite altrove, non c’è un’intera band che aggiunge qualcosa ai brani, ma semplicemente un susseguirsi rumoroso di virtuosismi di batteria schiaffato sopra che non aggiunge una nuova prospettiva, semplicemente distrae dal resto. Per carità, nulla da togliere a lui tecnicamente, ma è proprio l’arrangiamento che non funziona. E poi, chiunque riproponga l’Allegro di Eine Kleine Nachtmusik deve morire. A PRIORI. Quanto al repertorio cantato… beh, soffre dei soliti difetti della Tamarrja, fra cui intubamento, falsettone con vibrato slabbrato spacciato per impostazione lirica, suoni striduli, sguaiati e schiacciati, totale mancanza di interpretazione ed emozione… il solito tiro al bersaglio, insomma. Per la parte classica, non essendo nemmeno riarrangiata in chiave moderna, tanto vale ascoltarsi una vera cantante operistica. Che poi, fra tutti e due, il repertorio è ruffiano che più ruffiano non si può, fra il Can Can di Offenbach, l’Ouverture del Guglielmo Tell di Rossini, O Mio Babbino Caro, la Canzone della Luna di Dvořák e – ho già detto che deve morire? – Eine Kleine Nachtmusik. Insomma, si punta al facilmente riconoscibile e allo sdoganato per fare quella che la mia insegnante di pianoforte, a suo tempo, definì “musica classica per mandroni”, cioè qualcosa che i mandroni ( = pigri) possano ascoltare con facilità per poi tirarsela dicendo di essere conoisseur di musica classica.
Il repertorio moderno, invece, è fin troppo riarrangiato: interamente orchestrale slash corale, con la batteria quando proprio va di lusso, tanto da rendere tremende anche le canzoni della stessa Tamj, figurarsi i poveri Queen (sul serio, la cover di Take My Breath Away è una delle cose più brutte che abbia mai sentito). Fra l’altro, nella tracklist figura anche un’orribile Swanheart. No, sul serio, Swanheart, la Ballata Che Mai Avrebbe Dovuto Essere. Nel 2014. E vabbè.
Ah, ho già detto che Eine Kleine Nachtmusik deve morire male assieme a chiunque continui a suonarla?

UltraviolenceLana Del Rey
Ultraviolence – Lana Del Rey
Finalmente una cosa su cui io e Lagna siamo d’accordo: ‘sta roba è inascoltabile. Se Born To Die era un album bruttino e pretenzioso, arrangiato male e cantato ancora peggio, aveva almeno il pregio di essere una buona miniera di cover per artisti realmente di talento che volessero infilare qualche canzonetta easy nel loro repertorio. Beh, Ultraviolence non è nemmeno questo: nonostante il tentativo di alleggerire un po’ gli strati geologici di sviolinate, il songwriting ha perso la componente easy-listening ed è diventato sconclusionato, piatto e talmente inconsistente che si fa fatica a seguire il filo delle melodie. Un grosso vuoto compositivo che, nonostante tutto, è arrangiato con la solita pretenziosità randomica: la profusione di archi avrà lasciato il posto alle chitarre elettriche, ma buona parte delle scelte continua a non essere affatto funzionale all’economia dei brani, solo buttata lì soltanto per tentare di dare un tocco vìnteig. La distorsione nella chitarra di Shades of Cool o di Money Power Glory fa accapponare la pelle, ed è solo uno dei vari episodi senza senso, che includono i synth di Sad Girl e il sassofono distorto di The Other Woman. Gli episodi che richiamano le pacchianate di Born To Die sono semplicemente grotteschi: se tutte quelle sviolinate sembravano ridondanti su quelle canzonette smaccatamente pop, a maggior ragione sembrano fuori posto nel piattume melodico di Old Money. L’idea di fondo, quella di far sembrare Ultraviolence un disco vintage, tutto sommato si intuisce. Ma forse, più che con foto low-fi in copertina e vagolate di filtri, sarebbe stata sviluppata meglio con uno studio più oculato delle melodie.
Un altro dei problemi, e pure grosso, è la tremenda enfasi che si è voluto mettere sulla voce di Lagna: le distorsioni in Cruel World, Fucked My Way Up To The Top e The Other Woman, che la fanno sembrare ancora più sguaiata, e poi lo striplicamento digitale sulla title track e su Sad Girl, il riverbero in Brooklyn Baby, sono tutti accorgimenti che, tentando di fare low-fi e vintage, non fanno che accentuare le tremende carenze tecniche di Lagna, che già non avrebbero bisogno di essere pubblicizzate. Vedesi Pretty When You Cry, dove è davvero insopportabile, o i vocalizzi in falsetto su The Other Woman, che sembrano campionati direttamente da un LP di Florence Foster Jenkins. Quale sia il senso di mettere così in primo piano il suo difetto principale non è dato saperlo, ma pace. A livello testuale, la situazione non è molto migliore. Di tanto in tanto salta fuori qualche metafora un po’ meno scontata, che esce dal cliché trademark “fingo di parlare di roba superficiale mentre contemplo la realtà profonda dell’universo”, ma per la maggior parte è di una pedanteria quasi ammirevole: riferimenti vintage e concetti pseudo-nichilisti come se piovesse, talmente espliciti e forzati da non lasciare spazio a nulla (“They think I don’t understand the freedom land of the 70’s”: guardatemi, sono una vera esperta del campo, ora lo sottolineo pure). Come se ci fosse così bisogno di ribadire per l’ennesima volta che “I’m a sad girl, I’m a sad girl, I’m a sad girl, e se non si fosse capito I’m a sad girl, I’m a bad girl, sì, esatto, I’m anche a bad girl.
Bon, abbiamo il disco più brutto dell’anno. Vuota cestino; invio.