Wednesday 31 December 2014

Bilancio musicale del 2014: Purgatorio

A metà strada fra le atrocità come Ultraviolence e le meraviglie che andremo a vedere nel prossimo post, c’è la triste landa della mediocrità, quella terra di mezzo in cui finiscono tutti quelli che “hanno le capacità ma non si applicano” e quelli che si impegnano ma non riescono a trovare davvero il filo del discorso. Qui di seguito troviamo album ed EP non malvagi ma nemmeno sostanziosi, altri che invece sono buoni ma destano perplessità, altri che sono semplicemente dispersivi e si capiscono da soli. Di ascolti se ne meritano anche più di uno, ma personalmente non mi hanno fatto innamorare.
Vediamo.


Distant SatellitesAnathema
Distant Satellites – Anathema
Curiosando su internet in attesa della spedizione della mia copia del cd, la critica che ho letto più spesso su quest’album è stata l’accusa di voler cavalcare l’onda del Capolavoro Assoluto, Weather Systems. Ora, per quanto ciò sia un giudizio esagerato e un po’ ingiusto… beh, non è nemmeno del tutto scorretto. È vero, The Lost Song part 1 & 2 pescano a piene mani dalle Untouchable, part 1 & 2 (e la 1 non si avvicina neanche lontanamente al loro splendore); e poi ci sono un po’ troppi rimandi a We’re Here Because We’re Here e pure al passato meno recente, cosa che fa un po’ storcere il naso perché non aiuta a farsi l’idea di un disco con un’identità propria. Poi, diciamolo, un capolavoro lo si fa una volta nella carriera – o, per lo meno, una volta ogni tot tempo: in parte, Distant Satellites è condannato proprio dall’ombra di un predecessore irraggiungibile.
Ma anche tralasciando Weather Systems e i giudizi affrettati, Distant Satellites è un po’ l’album delle tante buone intenzioni che non si sono tradotte in fatti. Prese singolarmente, più della metà delle canzoni sono belle; nel complesso, però, faticano a lasciare un’impressione. La seconda canzone-anteprima pubblicata sul web, You’re Not Alone, riassume perfettamente questo aspetto: idea spettacolare, una prima parte da brivido, avrebbe potuto essere un capolavoro; ma dopo un po’ si perde e diventa totalmente sconclusionata. E in effetti, Distant Satellites soffre proprio di carenze strutturali: troppo diluito, un po’ ripetitivo, a tratti prolisso e senza un vero proprio climax e risoluzione. Quest’ultimo aspetto in particolare, per una band che fa dell’impatto emotivo della sua musica un trademark, finisce per penalizzare pesantemente il lavoro. Certo, gli episodi spettacolari non mancano: The Lost Song Part 2, tolto il confronto con la rispettiva Untouchable, è una traccia bellissima, ben strutturata ed estremamente emozionante, così come Anathema, che guarda ancora più al passato; la title track, invece, sperimenta in territori elettronici, e la ballad Ariel tocca tutti i punti giusti per non far pesare i suoi oltre sei minuti. Poi ci sono canzoni che, pur non essendo capolavori, sono belline: Dusk (Dark Is Descending) e, tutto sommato, The Lost Song Part 1. Ma, specie ai primi ascolti, finiscono per annegare fra episodi sconcertanti (la già citata You’re Not Alone), piuttosto scialbi (The Lost Song Part 3), inutili (Firelight, troppo lunga come intro della title track, troppo sconclusionata come traccia a sé stante), per finire con una Take Shelter che, strizzando l’occhio a Dreaming Light, è estremamente loffia per la prima (lunga) metà e, quando finalmente entra nel vivo, invece che arrivare a un picco emotivo si perde nella ripetitività, chiudendo in bruttezza l’album. Inoltre, le performance vocali di Vincent e, quando interviene, Danny Cavanagh non sono fra le migliori della loro carriera, il che non aiuta molto – passi tutto, ma quelle vocali spalancate cosa sono?
Con gli ascolti successivi, lentamente sono le canzoni migliori a emergere, ma la sensazione di un disco sconclusionato e un po’ loffio non sparisce mai del tutto. Ricapitolando, Distant Satellites non è affatto un album da buttare: semplicemente, non funziona nel complesso ed è salvato da singoli episodi che però risaltano meglio se ascoltati da soli. È una ciambella a tratti gustosa, a tratti insipida, ma sicuramente senza il buco.
Preferite: The Lost Song Part 2, Anathema, Distant Satellites

Do It AgainRöyksopp & Robyn
Do It Again – Röyksopp & Robyn
Devo ammettere di non essere un grande estimatore dei precedenti lavori in tandem dei Röyksopp con Robyn. Girl And The Robot è probabilmente la canzone che meno mi piace su Junior, così come None Of Dem, sull’album di Robyn, è piuttosto bruttina. Fosse stato un intero EP con Susanne Sundfør mi sarei strappato le mutande dall’entusiasmo e non avrei aspettato mesi per ascoltarlo perché ho dato priorità ad altro, ma il convento passa questo. E il risultato? Mmh. Tanto per cominciare, Do It Again è un EP e in quanto tale va preso: è breve e ha una struttura semplificata, meno varia rispetto a un album. A livello compositivo e di arrangiamenti, tocca picchi di eccellenza così come di orrore, passando per varie sfumature intermedie. Trattandosi di cinque canzoni, possiamo anche andare con un rapido track by track. Monument è uno dei capolavori assoluti dei Röyksopp, una canzone che i suoi quasi dieci minuti di durata non li fa pesare minimamente: la si ascolta con gran piacere, e quando si avvia soffusamente verso la conclusione si è sorpresi che il tempo sia volato così. D’altro canto, però, Sayit è una delle cose più brutte che abbia mai ascoltato, sicuramente La Canzone Più Brutta di tutta la discografia dei Röyksopp: un concentrato cacofonico di techno buttata lì tanto per, una di quelle che ti fa cambiare sala anche quando sei ubriaco fin sopra i capelli in un club alle quattro del mattino. Do It Again, l’eponimo singolo di lancio, è una canzone carina, piacevole sia da ascoltare che da ballare, ma senza grosse pretese; carino il testo – una descrizione molto onesta di un’amicizia con benefit – e anche la melodia non è male, ma non va molto oltre l’essere orecchiabile. Every Little Thing è una tipica canzone à la Röyksopp, soffusa e calda: sicuramente bella, ma come il duo ne ha sfornate molte negli anni. Inside The Idle Hour Club è infine uno strumentale relativamente inutile, specie nella sua lunghezza che, a differenza dell’opener, pesa tutta. Tende ad essere ripetitiva e perfino prolissa con il poco (ma davvero poco) che ha da dire.
Nel complesso, quindi, l’EP non è malvagio ed è sicuramente sufficiente, ma nemmeno la rivelazione dell’elettronica che i fan di Robyn hanno annunciato al mondo. A livello vocale lei si difende bene, dando la giusta interpretazione emotiva alle canzoni e tutto, ma nel complesso il disco sembra più una raccolta di tre belle canzoni estemporanee e due robi orribili di contorno. Più un singolo esteso estratto da un album più complesso che un EP che cammina sulle sue gambe.
Preferite: Monument, Every Little Thing, Do It Again

AftermathAmy Lee feat. Dave Eggar
Aftermath – Amy Lee feat. Dave Eggar
E vabbè, va preso per quello che è: la colonna sonora di un film indie sfigato. È piacevole da ascoltare anche in assenza del film (onestamente, frega nulla di guardarlo) e fa passare una buona mezz’ora, ma è piuttosto poco sostanzioso. Buona parte delle tracce strumentali, contribuite da Dave Eggar (il violoncellista che andò in tour con gli Evanescence già nel 2006-2007), sono piuttosto interscambiabili e, soprattutto, troppo brevi. Fanno un buon sottofondo mentre si cazzeggia su internet, ma solo un paio restano impresse, come Between Worlds e Voices In My Head, abbastanza lunghe da avere un inizio, uno sviluppo e una conclusione. Fortunatamente ci sono le canzoni vere e proprie a salvare il tutto: Dark Water, un esempio davvero pregevole di brano mediorientale in salsa synthrock su cui canta Malika Zarra; Can’t Stop What’s Coming, che sperimenta più sull’ambient; e i due gioiellini elettronici, una Push The Button tutta dance, con tanto di ansiti sexy che non ti saresti mai aspettato da Amy, e una Lockdown più d’ambiente e che occasionalmente sconfina nell’industrial. La voce di Amy sembra essersi ripresa un po’ dopo gli abissi raggiunti sull’ultimo album degli Evanescence e il rispettivo tour, forse perché finalmente non deve più urlare per farsi sentire in mezzo alla schiacciasassi Hunt&McLawhorn, e fa sperare in performance almeno dignitose in futuro.
In definitiva, come stuzzichino in attesa di un vero debutto solista ci può stare. Basta solo che Amy non faccia passare come al solito ventordici anni prima della prossima release, perché come disco Aftermath non sazia.
Preferite: Lockdown, Push The Button, Dark Water

Pure Adulterated JoyMorning Parade
Pure Adulterated Joy – Morning Parade
C’è qualcosa di sostanzialmente non funzionante nei Morning Parade. Hanno le idee, hanno il talento, ma per quanto mi riguarda non riescono proprio a ingranare. Già il self-titled ha dato questa impressione, e questo secondo full-length la conferma in pieno. Pure Adultered Joy è una raccolta di canzoni per lo più carine, ma a cui manca la scintilla per diventare memorabili. Sulla falsariga del debutto, la parte rock è enfatizzata rispetto alla componente elettronica (e le canzoni in cui ciò è più marcato sono le meno interessanti), la produzione tende a uniformare il tutto e alcune melodie sono un po’ blande, troppo reminescenti del rock britannico più canonico, sia nella progressione degli accordi, sia negli arrangiamenti, specie quelli vocali. Non mancano le highlight, per lo più simil-ballad o pezzi un po’ più synth, ma anche loro vanno più sul “bellino” che sul capolavoro. E dire che la band di potenziale ne ha: prima dell’album di debutto hanno pubblicato una mezza dozzina di singoli (solo due dei quali inclusi nell’album) uno più bello dell’altro, che mostravano un songwriting efficace enfatizzato da arrangiamenti piuttosto originali. C’è da chiedersi che fine abbiano fatto tutte quelle idee. Perfino ai testi, tutto sommato interessanti e per lo più venati di critica sociale verso la Generazione Me senza essere puntigliosi o scontati, manca un po’ il mordente per restare impressi.
In sostanza, l’album non è malvagio, ma nemmeno particolarmente interessante. È riuscito meglio del precedente, ma si mantiene nello stesso limbo di vaga mediocrità, abbastanza ispirato da essere riascoltato ma non tanto da durare nel tempo. Peccato: speriamo che il trend di miglioramento continui e col prossimo si ritorni i fasti pre-esordio.
Preferite: Sharing Cigarettes, Seasick, Culture Vulture

ShelterAlcest
Shelter – Alcest
Il problema di Neige è che è una garanzia: da una parte, sai che va sempre a parare sullo stesso tipo di cose; dall’altra, non riuscirebbe a fare musica brutta nemmeno se lo facesse apposta. Personalmente, speravo in un taglio più netto rispetto all’ormai esausta formula Alcest, ma Neige si è accontentato di eliminare del tutto le influenze black metal per dedicarsi a uno shoegaze più puro e arioso. Oggettivamente, però, la musica è buona e c’è poco da rinfacciargli: la differenza rispetto al passato è affidata per lo più al mood generale, più solare e positivo, con ben pochi punti nostalgici o malinconici, ed è questo che lo salva da un altissimo rischio autoplagio.
Purtroppo, non è un album iconico né particolarmente memorabile: visto che le novità sono così poche, preso in un mood Alcest andrei piuttosto ad ascoltare il sempiterno debutto. Ma senza queste pretese, resta comunque un buon disco con una sua personalità e un suo perché all’interno della discografia della band. Per il futuro però urgono cambiamenti.
Preferite: Opale, L’Éveil Des Muses, Délivrance

Clare MaguireClare Maguire
Clare Maguire – Clare Maguire
Dopo Kari, altro “era ora” per la Claretta, che ha smesso di pettinare le bambole sparando canzoni randomiche su internet a intervalli irregolari e si è decisa a darci almeno un EP. Come era prevedibile dando uno sguardo al suo Tumblr, ha rinnegato il sound synth del debutto per darsi a sonorità vintage e per lo più acustiche, che valorizzano forse meglio la sua voce (per quanto l’abbinamento fra l’elettronica di Light After Dark e il suo contralto corposo fosse comunque intrigante). Certo, un EP di quattro tracce di cui due cover non sazia, ma prendiamolo come un buon esordio per questa nuova era e speriamo non si riattacchi alla bottiglia.
Preferite: Black Coffee, Paper Thin

AntagoniseMaYaN
Clare Maguire – Clare Maguire
Io e i MaYaN non ce la possiamo proprio fare. Un po’ me ne vergogno perché mi sento come uno di quei metallarini che si lagna che gli album non sono “abbastanza metal”, solo al contrario. C’è un sostanziale miglioramento rispetto al debutto, che ricordo solo come un indistinto polpettone di rumore, ma continuo a pensare che i MaYaN siano un totale spreco di tempo e idee che potrebbero benissimo essere investite negli Epica. Con meno prolissità, tecnicismi gratuiti e batteria pestata a tutti i costi, canzoni come Bloodline Forfeit potrebbero benissimo funzionare nella band madre e spiccare molto di più. A conti fatti, stavolta non c’è nulla che non vada davvero. C’è solo una sovrabbondanza di tutto: tecnicismi di chitarra come se piovesse, virtuosismi di batteria assordanti, cambi di tempo fin troppo improvvisi e confusionari… l’unica cosa davvero bilanciata sono le orchestrazioni, che si mantengono discrete sullo sfondo senza appesantire un amalgama già difficile da digerire.
Tralasciando la mia allergia al metal così rumoroso, comunque, i problemi principali di quest’album sono nel comparto vocale: non sono mai stato un gran fan del growl di Mark Jansen, ma diventa quasi piacevole in confronto agli urli svociati del sempre pessimo Henning Basse. La benamata Floor Jansen, che salta fuori qua e là su Burn Your Witches e Redemption, grida quasi più degli altri due messi assieme e non aiuta molto. Si salvano solo Laura Macrì, lodevole sia nei vocalizzi di background che come lead, sia una Marcela Bovio criminalmente mal sfruttata. Ciliegina sulla torta, Mark dà il peggio di sé nei testi, oscillando fra la telecronaca nuda e cruda e il suo atteggiamento da predicatore de noartri. Non che sia una novità, specie ricordando Quarterpast, ma inizia a diventare davvero noioso.
In conclusione, l’album nel complesso non è pessimo, e in alcuni momenti è anche gradevole, ma è eccessivo a livello musicale, palloso a livello testuale, e buona parte delle vocals sono da cestinare. Riconosco lo sbattone tecnico dei musicisti, che lo salvano dall’Inferno, ma non credo che lo riascolterò a breve. Più che una raccolta di musica che ha qualcosa da comunicare, sembra più una vetrina che consente ai musicisti di mostrare quanto sono bravi e sanno suonare veloce. Personalmente, non è questo che cerco quando ascolto qualcosa.

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