Con la speranza che questo segni la definitiva riapertura delle porte del Santuario.
Un sogno che ho fatto ieri notte, una dimostrazione di quanto ormai l’edonismo sia un tarlo che mi rode anche nell’incoscienza. Un sogno fatto appena prima del risveglio, quindi ben impresso nei ricordi.
Alghero, un pomeriggio estivo. Cielo livido, d’una sfumatura fra l’indaco e il viola, inquietante, opprimente. Non ricordo bene come, ma si diffonde la voce dell’imminente arrivo di una tromba marina. Inizia ad avvicinarsi, punta sulla città: nulla di spaventoso, quel tanto che basta per portar via tegole e antenne. E tuttavia, a casa mia è un gran correre a ritirare il bucato steso sul terrazzino, per chiuder tutte le finestre, per assicurarsi che la gatta non esca fuori.
La visuale che si ha dal terrazzino del mio appartamento del quarto piano è un po’ diversa da quella reale, all’angolo della via si intravede il mare e la tromba d’aria che già lambisce la costa: qualcosa di spettacolare, magnifico. Il vento è già forte, tento di chiudere la portafinestra esterna dopo aver portato le piante dentro e ci riesco solo con difficoltà. Mi precipito in camera mia per chiudere la mia finestra e (con l’incongruenza che spesso si manifesta in sogno) il palazzo di fronte non c’è più, lo sguardo spazia sino al lungomare dove la tromba marina sta sradicando delle inferriate. Non ricordo perché, distolgo lo sguardo, vado in un’altra stanza, poi torno: la colonna vorticosa è ormai a un passo dal mio palazzo, lambisce quello di fronte. E, a quel punto, decido di fare una cosa forse folle: lascio aperta la finestra, abbasso a metà la tapparella e resto lì fermo, davanti, solo la zanzariera e la tapparella a proteggermi dalla furia del vento lì fuori. Per il solo gusto di sentire com’è tutto quel vento su di me. Per il solo desiderio di sentire la pioggia frustante.
E poi arriva. Una sensazione di libertà, i capelli che svolazzano, il piacere di essere in balìa degli elementi. E, dopo qualche momento, mi sollevo da terra, la tenda che si stacca dagli anelli e finisce appiccicata al vetro e io che fluttuo in aria, sorretto dalla furia del vento, il soffitto sotto i miei piedi, il pavimento lontano. Pochi minuti di piacere, sensazione di vuoto, libertà assoluta. E poi, l’atterraggio che non è dei migliori, la piccola bestemmia, io che mi rialzo ed esco dalla mia stanza per vedere dalla finestra della cucina la tromba d’aria che passa dall’altra parte del mio palazzo.
E infine, la coscienza del giorno che, come un taglierino, squarcia il sogno e cancella il cielo livido per far spazio a quello luminoso del mezzogiorno, ancora nascosto dalla tapparella abbassata e dalla tenda tirata, che pende al suo posto, senza aver avuto coscienza d’essersi librata nel vento che aveva invaso quella stanza fin troppo ordinata.