E così il 2015 sta per concludersi. Finalmente non ci sono più album che devono uscire ed è tempo di bilanci musicali: come sempre, inizio dal peggio del peggio.
Prima di cominciare, però, c’è una novità: quest’anno niente purgatorio. Gli album mediocri sono stati pochissimi e si dividono fra abbastanza bruttini da meritarsi la bocciatura anche se per poco, o abbastanza decenti da salvarsi in corner. Non aveva senso scrivere un post apposta per tre album, per cui li ho smistati fra inferno e paradiso a seconda di dove tendeva la loro mediocrità.
Detto ciò, quest’anno le uscite negative sono state poche ma davvero monumentali. Nel senso che chi ha floppato l’ha fatto in grande stile, con album talmente brutti che c’è da chiedersi se li abbiano ascoltati prima di passarli alla label. Ma in quest’angolino di internet non c’è fandom indemoniato o stampa prezzolata che tenga: pronti a scoprire i veri orrori che ci ha riservato il 2015 dal meno peggio all’obbrobrioso?
Innuendo – Amberian Dawn
City Of Heroes – Kiske/Somerville
Prima di cominciare, però, c’è una novità: quest’anno niente purgatorio. Gli album mediocri sono stati pochissimi e si dividono fra abbastanza bruttini da meritarsi la bocciatura anche se per poco, o abbastanza decenti da salvarsi in corner. Non aveva senso scrivere un post apposta per tre album, per cui li ho smistati fra inferno e paradiso a seconda di dove tendeva la loro mediocrità.
Detto ciò, quest’anno le uscite negative sono state poche ma davvero monumentali. Nel senso che chi ha floppato l’ha fatto in grande stile, con album talmente brutti che c’è da chiedersi se li abbiano ascoltati prima di passarli alla label. Ma in quest’angolino di internet non c’è fandom indemoniato o stampa prezzolata che tenga: pronti a scoprire i veri orrori che ci ha riservato il 2015 dal meno peggio all’obbrobrioso?
Innuendo – Amberian Dawn
Gli allievi hanno superato i (decrepiti) maestri e l’imitazione è la massima forma di lusinga (quando sono gli altri a farla): è questo il sunto di Innuendo, uscito a sei mesi dall’album della band che gli Amberian Dawn hanno scopiazzano per tutta la vita. Eppure, essendo la band in questione i Naituiss, il materiale da plagiare è già talmente trito e ritrito che fare di meglio non significa tirare fuori un buon album: qual è la verità su Innuendo?
Beh, tanto per cominciare ha i soliti, immancabili, ormai prevedibili difetti. Confermandosi eterni ritardatari, gli Amberian Dawn continuano a trascinarsi dietro ritmiche, riff e strutture prettamente power metal: batteria pestata come l’uva dopo la vendemmia, riff ritmici e rapidi quanto insulsi, qualche spruzzata di synth scampanellante Made-In-Holopainen™ e l’immancabile assolo di chitarra super-tecnico nel bridge, messo lì per fare presenza. Beh, se non altro le orchestrine sintetiche sono ridotte al minimo sindacale e la Tuomassa locale ha invece abbracciato in pieno il trend degli ultimi anni (in ritardo) condendo il tutto con qualche spruzzata di elettronica.
Per capire Innuendo, però, è interessante parlare della copertina, che riassume ciò che probabilmente la band aveva in mente componendo l’album: la maschera metà solare e metà lunare è la traduzione grafica di un album la cui prima metà è più allegra, tendente al metal pop che va di moda ora, e la seconda più heavy, “ricercata” e impegnativa. A livello pratico, ciò si traduce in un album schizofrenico, la cui prima metà offre delle canzoni insolitamente orecchiabili e genuinamente piacevoli, mentre la seconda sfiora punte di pretenziosità irritante e cacofonia sconclusionata. Il buon lavoro di canzoni come Fame & Gloria, Ladyhawk, Innuedo e The Court Of Mirror Hall, che si fanno perdonare gli stereotipi proponendo melodie catchy e ritornelli che rimangono in testa, o di Angelique, una ballata che, a dispetto di tutto, è molto semplice e onesta, viene smontato dall’esplosione di power nudo, crudo e anacronistico di Rise Of The Evil, dai tecnicismi gratuiti di Chamber Of Dreadful Dreams o la pessima Symphony Nr 1, Pt. 1 - The Witchcraft, e dall’insipida melodia che fa da sfondo ai tentativi di ricercatezza di Knock Knock Who’s There?. La traccia finale, Your Time - My Time, riassume perfettamente i problemi dell’album, con una prima parte orecchiabile e molto gradevole che però si perde in un delirio gratuito di virtuosismi di chitarra sul finale.
Il messaggio è chiaro: se gli Amberian Dawn abbassassero le pretese, potrebbero fare della musica che, per quanto già sentita mille volte, almeno è orecchiabile. Il problema nasce quando tentano di fare i seri a tutti i costi senza avere i mezzi per comporre e arrangiare canzoni davvero memorabili. Nel complesso, però, la parte catchy dell’album lo salva dall’essere un disastro completo; a parità di pretenziosità e riciclo del passato, quei quattro ritornelli carini e la ballata ben riuscita segnano il momento in cui gli allievi hanno superato i maestri, che quest’anno non sono riusciti a produrre nemmeno una melodia degna di essere riascoltata.
Beh, tanto per cominciare ha i soliti, immancabili, ormai prevedibili difetti. Confermandosi eterni ritardatari, gli Amberian Dawn continuano a trascinarsi dietro ritmiche, riff e strutture prettamente power metal: batteria pestata come l’uva dopo la vendemmia, riff ritmici e rapidi quanto insulsi, qualche spruzzata di synth scampanellante Made-In-Holopainen™ e l’immancabile assolo di chitarra super-tecnico nel bridge, messo lì per fare presenza. Beh, se non altro le orchestrine sintetiche sono ridotte al minimo sindacale e la Tuomassa locale ha invece abbracciato in pieno il trend degli ultimi anni (in ritardo) condendo il tutto con qualche spruzzata di elettronica.
Per capire Innuendo, però, è interessante parlare della copertina, che riassume ciò che probabilmente la band aveva in mente componendo l’album: la maschera metà solare e metà lunare è la traduzione grafica di un album la cui prima metà è più allegra, tendente al metal pop che va di moda ora, e la seconda più heavy, “ricercata” e impegnativa. A livello pratico, ciò si traduce in un album schizofrenico, la cui prima metà offre delle canzoni insolitamente orecchiabili e genuinamente piacevoli, mentre la seconda sfiora punte di pretenziosità irritante e cacofonia sconclusionata. Il buon lavoro di canzoni come Fame & Gloria, Ladyhawk, Innuedo e The Court Of Mirror Hall, che si fanno perdonare gli stereotipi proponendo melodie catchy e ritornelli che rimangono in testa, o di Angelique, una ballata che, a dispetto di tutto, è molto semplice e onesta, viene smontato dall’esplosione di power nudo, crudo e anacronistico di Rise Of The Evil, dai tecnicismi gratuiti di Chamber Of Dreadful Dreams o la pessima Symphony Nr 1, Pt. 1 - The Witchcraft, e dall’insipida melodia che fa da sfondo ai tentativi di ricercatezza di Knock Knock Who’s There?. La traccia finale, Your Time - My Time, riassume perfettamente i problemi dell’album, con una prima parte orecchiabile e molto gradevole che però si perde in un delirio gratuito di virtuosismi di chitarra sul finale.
Il messaggio è chiaro: se gli Amberian Dawn abbassassero le pretese, potrebbero fare della musica che, per quanto già sentita mille volte, almeno è orecchiabile. Il problema nasce quando tentano di fare i seri a tutti i costi senza avere i mezzi per comporre e arrangiare canzoni davvero memorabili. Nel complesso, però, la parte catchy dell’album lo salva dall’essere un disastro completo; a parità di pretenziosità e riciclo del passato, quei quattro ritornelli carini e la ballata ben riuscita segnano il momento in cui gli allievi hanno superato i maestri, che quest’anno non sono riusciti a produrre nemmeno una melodia degna di essere riascoltata.
City Of Heroes – Kiske/Somerville
Passano gli anni, ma la domanda resta sempre la stessa: perché Amanda Somerville spreca la sua voce e il suo enorme talento in queste futilità? Se già il primo Kiske/Somerville è stato un album del tutto inutile, il secondo segue a ruota e non propone nulla di nuovo. A quanto pare, il duo compositivo Mat Sinner/Magnus Karlsson non riesce a distaccarsi se non con grande fatica dal solito stereotipo, cosa ben evidente già dal singolo di lancio, Walk On Water, talmente prevedibile che è quasi divertente: intro pianoforte/sinfonica col tema del ritornello, chitarra che lo ripete, strofa midtempo, preritornello in sordina e ritornello pieno di schitarrate; ripeti tutto, assolo a più non posso sul bridge, doppio ritornello con qualche tecnicismo vocale, outro pianoforte/sinfonica come in apertura. Per il resto, prima canta Kiske, poi Amanda, poi cantano insieme in terzina e la cosa finisce lì: fatta eccezione per Ocean Of Tears, una delle (power) ballad più brutte e scontate degli ultimi anni, tutte e dodici le canzoni seguono questo schema fisso, tassello in più tassello in meno, rendendo i cinquantacinque minuti di questo disco estremamente monotoni. Se si aggiunge che le melodie tentano di essere catchy ma risultano per lo più solo banali (Open Your Eyes e, soprattutto, Right Now sembrano brutte sigle di anime), e che gli arrangiamenti tentano di essere heavy ma risultano solo rumorosi, ecco un’altra proposta musicale da sbadiglio, condita per di più da sviolinate campionate dal peggiore midi.
Qualche traccia qua e là si salva: Salvation ha una melodia genuinamente orecchiabile e inserisce un pizzico di elettronica qua e là che la rende più sopportabile; Lights Out è una discreta rappresentante del metal catchy e danzereccio che va alla grande ultimamente e si lascia ascoltare volentieri; Breaking Neptune, scritta da Amanda col marito Sander Gommans, è una traccia un pochino più varia rispetto alla media e ha anche un testo interessante (grazie, Amanda!). Per il resto, l’ottima produzione, che pure rende ogni strumento ben distinguibile, non riesce a coprire il songwriting scialbo e prevedibile. E, anzi, soffoca l’unico elemento davvero interessante, la voce di Amanda, sdoppiandola in terzine improbabili e mettendola costantemente in secondo piano rispetto a quella di Kiske. Per quanto l’album sia nel complesso meno stracciapalle del debutto, il discorso è sempre lo stesso: perché sorbirmi tutto ciò quando posso avere un’Amanda solista?
Qualche traccia qua e là si salva: Salvation ha una melodia genuinamente orecchiabile e inserisce un pizzico di elettronica qua e là che la rende più sopportabile; Lights Out è una discreta rappresentante del metal catchy e danzereccio che va alla grande ultimamente e si lascia ascoltare volentieri; Breaking Neptune, scritta da Amanda col marito Sander Gommans, è una traccia un pochino più varia rispetto alla media e ha anche un testo interessante (grazie, Amanda!). Per il resto, l’ottima produzione, che pure rende ogni strumento ben distinguibile, non riesce a coprire il songwriting scialbo e prevedibile. E, anzi, soffoca l’unico elemento davvero interessante, la voce di Amanda, sdoppiandola in terzine improbabili e mettendola costantemente in secondo piano rispetto a quella di Kiske. Per quanto l’album sia nel complesso meno stracciapalle del debutto, il discorso è sempre lo stesso: perché sorbirmi tutto ciò quando posso avere un’Amanda solista?
King Of Kings – Leaves’ Eyes
Sarò
onesto: per qualche momento sono stato tentato di infilare quest’album
in purgatorio invece che all’inferno, un risultato notevole
per una band dedita al riciclo come i Leaves’ Eyes; ma col procedere
dell’ascolto ci ho rinunciato. È vero, King Of Kings di per sé
non è malvagio come ci si potrebbe aspettare; ma resta banale, fuori
tempo massimo e qualitativamente poco costante: parte
decentemente con melodie orecchiabili e piacevoli ma poi sfocia
nell’insipido e annega in un mare di cliché e già sentito. Basta
ascoltare Halvdan The Black, ad esempio, che è praticamente un remaster di Hell To The Heavens dal disco precedente.
Fra le canzoni migliori figurano sicuramente quelle più catchy o
semplici: la title track che, cliché-carillon a parte, ha una melodia
molto piacevole; Haraldskvæði, la vera highlight dell’album, una ballata insolitamente ben riuscita dai toni folk molto intimi; e poi The Waking Eye,
che parte interessante mantenendosi semplice, anche se poi si perde in una certa
ridondanza.
Più disastrosi sono invece i tentativi di fare i ricercati, sia in senso folk sia in senso classicheggiante: la magniloquenza spropositata di in Vengeance Venom o la pretenziosità di Sacred Vow sono idee troppo ambiziose per i poveri mezzi compositivi dei Leaves’ Eyes, per non parlare dei sette interminabili minuti di Blazing Waters, un enorme calderone di parti assemblate a caso, o della ridicola brodaglia folk condita con ululati (davvero!) di Swords In Rock. E poi c’è la noia totale di Edge Of Steel, il riassunto di qualsiasi canzone insipida dei Leaves’ Eyes con una Simone Simons mixata malissimo, tanto da essere quasi indistinguibile da Liv. A dare il colpo di grazia, ben due interludi folk di assoluta inutilità in un album già poco sostanzioso (Sweven e Feast Of The Year), moncherini che avrebbero potuto far parte delle successive canzoni senza tentare di allungare la tracklist a tutti i costi. Ma, come al solito, il vero tallone d’Achille è la voce di Liv: gli acuti in King Of Kings o le parti terribilmente nasali in Vengeance Venom sono solo due esempi degli abissi di fastidiosità raggiunti da una performance già, al suo meglio, mediocre, forzata e appesantita da un onnipresente falsetto nasale e stridulo. L’unica canzone in cui Liv è piacevole è Haraldskvæði, visto che riesce a riportare decentemente a galla il timbro etereo e quasi sussurrato dei tempi d’oro.
Per riassumere, King Of Kings avrebbe potuto essere un album decente, con i suoi alti e bassi, dieci anni fa, quando ancora il symphonic metal da manuale aveva qualcosa da dire (e Liv sapeva cantare); oggi è un’accozzaglia di luoghi comuni e stereotipi che i Leaves’ Eyes, in particolare, hanno sfruttato fino alla nausea. Ciò che gli dà il colpo di grazia è la pretenziosità: Liv che non si decide a prendere qualche lezione di canto e, soprattutto, il tentativo di fare gli epic e i bombastic a tutti i costi.
Più disastrosi sono invece i tentativi di fare i ricercati, sia in senso folk sia in senso classicheggiante: la magniloquenza spropositata di in Vengeance Venom o la pretenziosità di Sacred Vow sono idee troppo ambiziose per i poveri mezzi compositivi dei Leaves’ Eyes, per non parlare dei sette interminabili minuti di Blazing Waters, un enorme calderone di parti assemblate a caso, o della ridicola brodaglia folk condita con ululati (davvero!) di Swords In Rock. E poi c’è la noia totale di Edge Of Steel, il riassunto di qualsiasi canzone insipida dei Leaves’ Eyes con una Simone Simons mixata malissimo, tanto da essere quasi indistinguibile da Liv. A dare il colpo di grazia, ben due interludi folk di assoluta inutilità in un album già poco sostanzioso (Sweven e Feast Of The Year), moncherini che avrebbero potuto far parte delle successive canzoni senza tentare di allungare la tracklist a tutti i costi. Ma, come al solito, il vero tallone d’Achille è la voce di Liv: gli acuti in King Of Kings o le parti terribilmente nasali in Vengeance Venom sono solo due esempi degli abissi di fastidiosità raggiunti da una performance già, al suo meglio, mediocre, forzata e appesantita da un onnipresente falsetto nasale e stridulo. L’unica canzone in cui Liv è piacevole è Haraldskvæði, visto che riesce a riportare decentemente a galla il timbro etereo e quasi sussurrato dei tempi d’oro.
Per riassumere, King Of Kings avrebbe potuto essere un album decente, con i suoi alti e bassi, dieci anni fa, quando ancora il symphonic metal da manuale aveva qualcosa da dire (e Liv sapeva cantare); oggi è un’accozzaglia di luoghi comuni e stereotipi che i Leaves’ Eyes, in particolare, hanno sfruttato fino alla nausea. Ciò che gli dà il colpo di grazia è la pretenziosità: Liv che non si decide a prendere qualche lezione di canto e, soprattutto, il tentativo di fare gli epic e i bombastic a tutti i costi.
Endless Forms Most Beautiful – Nightwish
C’è davvero poco da dire su Endless Forms Most Beautiful: è un album semplicemente brutto che vive del blasone della band che l’ha sfornato. La sua offerta musicale è inversamente proporzionale allo hype precostituito e al drama che ha circondato la sua uscita: è una sfilza dei più scontati luoghi comuni proposti dai Nightwish e basta. A poco sono valsi i cambiamenti della line up, con Kai Hahto che alla batteria fa sempre le solite cose di Jukka, la sempre sopravvalutata Floor Jansen al microfono e il polistrumentalista britannico Troy Donockley alle uillean pipe, cornamuse e quant’altro per dare un tocco chic. E ancor meno valgono le dichiarazioni di Holopainen su quanto sia un album “band-oriented”: Endless Forms Most Beautiful tocca vette di riciclo e autoplagio del tutto nuove perfino per una band come i Nightwish. Gli elementi più scontati della band sono tutti lì: sezioni ritmiche piuttosto standard, riff banali, strutture semplici, il tutto annegato in una marea di orchestra e coro Made in UK by Pip Williams™ per cercare di nascondere i buchi compositivi. Solo che, a questo giro, tutte le melodie sono insipide e poco ispirate, quasi “stanche”, e raramente fanno presa sull’orecchio dell’ascoltatore più esigente. Nel corso degli interminabili ottanta-e-passa minuti, il migliore diversivo che l’album offre è tentare di indovinare dove, nella discografia dei Nightwish, si sia già sentito questo o quel pezzo di canzone: si parte benissimo con Shudder Before The Beautiful, che assieme a Yours Is An Empty Hope è composta da diverse percentuali di Master Passion Greed e Dark Chest Of Wonders fuse assieme; si continua con gli smembramenti di Bye Bye Beautiful della title track e di Alpenglow, e poi con My Walden, che combina Last Of The Wilds con Last Ride Of The Day. Ma per rendersene conto bastava già il singolo di lancio, Élan, che è virtualmente indistinguibile da Last Of The Wilds e I Want My Tears Back. Le uniche tracce che hanno qualcosa da offrire sono Weak Fantasy che, prima di perdersi nella ripetitività più assoluta, assaggia qualche atmosfera simil-country, e le ultime due: The Eyes Of Sharbat Gula è uno strumentale molto piacevole – per la prima metà, perché poi scade nella ridondanza. La suite, The Greatest Show On Earth, punta invece sulla legge dei grandi numeri: è statisticamente impossibile che in ventiquattro minuti di canzone non ci sia proprio nulla che si salva. Quest’ultima è un’esperienza d’ascolto particolarmente frustrante, perché i pochi spunti interessanti (l’intro, i primi versi, il ritornello) annegano in mezzo a un oceano di ripetitività e filler messo lì con la palese intenzione di raggiungere un minutaggio astronomico, ostacolando la progressione naturale della melodia in un crescendo, climax e una risoluzione. Come tentativo di creare una canzone-concept che parla dell’evoluzione della vita sulla Terra è piuttosto fallimentare perché è una canzone che, di per sé, non evolve, ma sprofonda sotto il peso della propria goffaggine.
A completare il quadro, le lyrics trite e ritrite (c’è un “meadows of heaven” e addirittura un “awaken Oceanborn” da qualche parte): si sa che Tuomas è sempre stato l’uomo della tanta forma con zero sostanza, ma in Endless Forms Most Beautiful perfino la forma viene meno, ridotta a un’accozzaglia di cliché e frasi fatte, e un susseguirsi asintattico di sostantivi e aggettivi che danno una lettura a malapena superficiale di temi complessi che richiederebbero un trattamento ben diverso. E come non menzionare la deludentissima performance vocale della nuova arrivata, Floor Jansen, che a dispetto del suo essere osannata si alterna fra le urla di Yours Is An Empty Hope, il disinteresse totale di Élan o della loffia ballata, Our Decades In The Sun, il karaoke di Shudder Before The Beautiful, e offre qualcosa di interessante solo sul finale, con degli stralci parlati e qualche sprazzo pseudo-lirico in The Greatest Show On Earth.
Al di là di questo, però, il songwriting stesso dà l’impressione che la Tuomassa non ci abbia nemmeno provato, a tirare fuori qualcosa di decente: è un compitino svolto controvoglia per prendere il voto dall’insegnante di cui è lo studente preferito a prescindere dalla performance, né più, né meno.
Honeymoon – Lana Del Rey
A completare il quadro, le lyrics trite e ritrite (c’è un “meadows of heaven” e addirittura un “awaken Oceanborn” da qualche parte): si sa che Tuomas è sempre stato l’uomo della tanta forma con zero sostanza, ma in Endless Forms Most Beautiful perfino la forma viene meno, ridotta a un’accozzaglia di cliché e frasi fatte, e un susseguirsi asintattico di sostantivi e aggettivi che danno una lettura a malapena superficiale di temi complessi che richiederebbero un trattamento ben diverso. E come non menzionare la deludentissima performance vocale della nuova arrivata, Floor Jansen, che a dispetto del suo essere osannata si alterna fra le urla di Yours Is An Empty Hope, il disinteresse totale di Élan o della loffia ballata, Our Decades In The Sun, il karaoke di Shudder Before The Beautiful, e offre qualcosa di interessante solo sul finale, con degli stralci parlati e qualche sprazzo pseudo-lirico in The Greatest Show On Earth.
Al di là di questo, però, il songwriting stesso dà l’impressione che la Tuomassa non ci abbia nemmeno provato, a tirare fuori qualcosa di decente: è un compitino svolto controvoglia per prendere il voto dall’insegnante di cui è lo studente preferito a prescindere dalla performance, né più, né meno.
Honeymoon – Lana Del Rey
Partiamo da un’inaspettata nota di merito: c’è una canzone, UNA, che mi piace tutta da inizio a fine, così com’è. È Swan Song,
che, con la giusta combinazione fra melodia orecchiabile ma non banale,
testo quasi carino e arrangiamento funzionale al brano, se fosse stata anche
cantata decentemente sarebbe stata lodevole già in questa versione. Insomma, un giorno, nelle mani di una vocalist più capace, sarà una
grandissima cover.
Fatta questa doverosa premessa, il resto è da cestinare senza pietà: sembra infatti che Lagna abbia avuto un talento straordinario nel riuscire a combinare il peggio di Born To Die col peggio di Ultraviolence per un risultato che si fa fatica ad ascoltare. Perché i riverberi, i filtri vocali e i violini ridondanti che non ci sono su Swan Song esplodono su tutte le altre tracce, diventando di una pacchianeria allucinante, specie data la scarsa presenza melodica. Basti sentire la title track, un esempio perfetto di ciò che non va nell’album: sviolinate melense da orchestrina del Maurizio Costanzo Show figlie di Born To Die che tentano di nascondere il piattume e la noia di una melodia sconclusionata à la Ultraviolence. Art Deco e Terrence Loves You seguono esattamente lo stesso schema, con la seconda che si permette addirittura di far cantare a Lagna note lunghe che non riesce assolutamente a tenere su. E poi ci sono episodi come The Blackest Day o 24, che sarebbero stati quasi carini se non fossero stati allungati e annacquati così tanto. Non che con le canzoni “migliori” vada tanto meglio: Music To Watch Boys To, High By The Beach e Salvatore, tolti i testi da terza elementare, sarebbero state carine, se solo non fossero state inondate di vocalizzi stonati, armonie vocali a casaccio che distraggono dal flusso melodico, parlati col filtro citofono, sezione ritmica inesistente e orpelli inutili in un contesto già cacofonico, come le risate in sottofondo su Salvatore. Interessante è il caso di God Knows I Tried, in cui Lagna lo ammette: “God knows I begged and borrowed and cried”. E i prestiti in questione non si riferiscono alla citazione testuale di Space Oddity in Terrence Loves You, ma anche alla chitarra praticamente presa di peso da Whenever, Wherever di Shakira nella stessa God Knows I Tried, così come autocitazioni (Florida Kilos in Freak), somiglianze più o meno marcate (Salvatore ricorda Once Upon A December dal cartone Anastasia) o la terrificante cover di Don’t Let Me Be Misunderstood, il modo migliore per far terminare la honeymoon in immediato divorzio.
Testualmente, l’album ricalca le solite banalità tanto care a Lagna, dalla solita California in Freak (Maremma, se le sento una volta quella parola le sgonfio gli zigomi a schiaffi), la finta blasfemia badass-a-tutti-i-costi di Religion o il complesso della puttana che vuole essere salvata in The Blackest Day. Insomma, Honeymoon aggiunge così poco alla già scarsa proposta musicale di Lagna che c’è anche poco da dire. Ai suoi fan più sfegatati, che fingono di non notare i mostruosi buchi compositivi e tecnici di Lagna, probabilmente piacerà pure, ma nel complesso è il solito album banale impacchettato in una cornice di pseudo-intellettualità che lo rende, se possibile, ancora più indigesto.
Fatta questa doverosa premessa, il resto è da cestinare senza pietà: sembra infatti che Lagna abbia avuto un talento straordinario nel riuscire a combinare il peggio di Born To Die col peggio di Ultraviolence per un risultato che si fa fatica ad ascoltare. Perché i riverberi, i filtri vocali e i violini ridondanti che non ci sono su Swan Song esplodono su tutte le altre tracce, diventando di una pacchianeria allucinante, specie data la scarsa presenza melodica. Basti sentire la title track, un esempio perfetto di ciò che non va nell’album: sviolinate melense da orchestrina del Maurizio Costanzo Show figlie di Born To Die che tentano di nascondere il piattume e la noia di una melodia sconclusionata à la Ultraviolence. Art Deco e Terrence Loves You seguono esattamente lo stesso schema, con la seconda che si permette addirittura di far cantare a Lagna note lunghe che non riesce assolutamente a tenere su. E poi ci sono episodi come The Blackest Day o 24, che sarebbero stati quasi carini se non fossero stati allungati e annacquati così tanto. Non che con le canzoni “migliori” vada tanto meglio: Music To Watch Boys To, High By The Beach e Salvatore, tolti i testi da terza elementare, sarebbero state carine, se solo non fossero state inondate di vocalizzi stonati, armonie vocali a casaccio che distraggono dal flusso melodico, parlati col filtro citofono, sezione ritmica inesistente e orpelli inutili in un contesto già cacofonico, come le risate in sottofondo su Salvatore. Interessante è il caso di God Knows I Tried, in cui Lagna lo ammette: “God knows I begged and borrowed and cried”. E i prestiti in questione non si riferiscono alla citazione testuale di Space Oddity in Terrence Loves You, ma anche alla chitarra praticamente presa di peso da Whenever, Wherever di Shakira nella stessa God Knows I Tried, così come autocitazioni (Florida Kilos in Freak), somiglianze più o meno marcate (Salvatore ricorda Once Upon A December dal cartone Anastasia) o la terrificante cover di Don’t Let Me Be Misunderstood, il modo migliore per far terminare la honeymoon in immediato divorzio.
Testualmente, l’album ricalca le solite banalità tanto care a Lagna, dalla solita California in Freak (Maremma, se le sento una volta quella parola le sgonfio gli zigomi a schiaffi), la finta blasfemia badass-a-tutti-i-costi di Religion o il complesso della puttana che vuole essere salvata in The Blackest Day. Insomma, Honeymoon aggiunge così poco alla già scarsa proposta musicale di Lagna che c’è anche poco da dire. Ai suoi fan più sfegatati, che fingono di non notare i mostruosi buchi compositivi e tecnici di Lagna, probabilmente piacerà pure, ma nel complesso è il solito album banale impacchettato in una cornice di pseudo-intellettualità che lo rende, se possibile, ancora più indigesto.
Symphony For A Hopeless God – Whyzdom
La cosa era già abbastanza chiara dal secondo album, Blind?, ma questo terzo disco l’ha confermato: (gl)i Whyzdom saranno ricordati come una di quelle band che hanno pubblicato un debutto interessante e poi nulla più. Symphony For A Hopeless God è infatti un album che non solo non aggiunge nulla di nuovo a quanto detto fin qui dalla band, ma non riesce nemmeno a scopiazzare decentemente i soliti luoghi comuni del symphonic metal. Basti ascoltare Tears Of A Hopeless God o Theory Of Life, che potrebbero essere uscite (male) da uno qualsiasi degli album precedenti: stessa struttura, stessi arrangiamenti, stessa progressione di accordi… insomma, un riciclo completo e per giunta privo di qualsiasi scintilla di passione. Come c’è da aspettarsi da una band che si definisce “philharmonic metal”, la parola d’ordine dell’album è “pretenziosità”: pretenzioso è l’esorbitante minutaggio, un’ora e sei minuti, reso ancora più interminabile dalla totale assenza di varietà nei brani; pretenziosa è la tracklist, undici canzoni di cui una sola sotto i cinque minuti; pretenzioso è il songwriting, che sacrifica l’orecchiabilità in un tentativo di ricercatezza, ma finisce per perdersi in arzigogolate digressioni che paralizzano il flusso delle canzoni. E ancora più pretenziosi, se possibile, sono gli arrangiamenti, fra riff di chitarra copiaincollati da qualsiasi band del genere ma pompati al massimo, cori infilati a casaccio e le orchestre più fastidiosamente pacchiane che il l’intero symphonic metal abbia mai saputo vomitare. E sì, è vero: se si deve criticare proprio orchestre e cori, tanto vale non ascoltare (gl)i Whyzdom, che ne hanno fatto il loro caposaldo; ma al di là dell’esagerazione, il problema sta anche nella produzione, che relega i complessi passaggi orchestrali a sghiribizzi sullo sfondo di una parte metal estremamente omogenea e monotona che, oltretutto, è compressa in modo da rendere qualsiasi strumento indistinguibile. Il tutto crea un fastidioso rumore di fondo dietro al cantato… e accidenti, che cantato! Se sull’ultimo album Elvyne Lorient aveva fatto una figura terribile, Marie Rouyer, l’ennesima nuova cantante, non se la cava meglio. La sua capacità di essere inopportuna in ogni contesto è quasi ammirevole: sguaiata e addirittura stonata quando tenta di cantare in maniera moderna e aggressiva (Let’s Play With Fire e Asylum Of Eden sono inascoltabili), artificiosa, stridula e ingolata al massimo quando tenta il “pseudo-lirico” (su Eve’s Last Daughter e Waking Up The Titans dà il peggio di sé). L’interpretazione piatta e monocorde, infine, non fa che sottolineare le linee vocali astruse e dalla metrica flebile che hanno sempre un po’ piagato le canzoni de(gl)i Whyzdom, per non parlare dei lunghi vocalizzi che si trasformano in ululati: lì sarebbe bastata l’onestà, da parte della band, di riconoscere che Marie non ne è tecnicamente all’altezza ed evitare di renderla ridicola.
Ciliegina sulla torta, è un concept album che parla, indovinate un po’, dell’impatto negativo che le religioni organizzate hanno sull’umanità. Certo, con l’ISIS che fa saltare in aria Palmira una settimana sì e una no è indubbiamente un argomento attuale, ma è stato trattato fino alla nausea in ambito symphonic metal e i due centesimi che (gl)i Whyzdom aggiungono sono scontati, banali e di una superficialità disarmante. Già solo il fallimento del concept è sufficiente a bocciare, beh, un concept album, ma sul lato musicale non si salva nemmeno un brano. Insomma, riesce a battere perfino Lagna del Rey come peggior album dell’anno.
Ciliegina sulla torta, è un concept album che parla, indovinate un po’, dell’impatto negativo che le religioni organizzate hanno sull’umanità. Certo, con l’ISIS che fa saltare in aria Palmira una settimana sì e una no è indubbiamente un argomento attuale, ma è stato trattato fino alla nausea in ambito symphonic metal e i due centesimi che (gl)i Whyzdom aggiungono sono scontati, banali e di una superficialità disarmante. Già solo il fallimento del concept è sufficiente a bocciare, beh, un concept album, ma sul lato musicale non si salva nemmeno un brano. Insomma, riesce a battere perfino Lagna del Rey come peggior album dell’anno.
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