Tuesday 10 July 2018

Leggete fino in fondo prima di triggerarvi

A me i migranti non è che piacciano. Nel senso, non parlo di singoli individui, o l’idea generale che una persona vada ad abitare in un paese diverso dal proprio: chiaro che non li caccerei a pedate e ruspe nel momento del bisogno, né negherei loro diritti e dignità umana. Intendo che come fenomeno sociale, non sono attivamente contento che arrivino qui: mi ci rassegno, riconosco la necessità di fornire accoglienza e aiuto, ma senza trasporto ed entusiasmo. In un dibattito pubblico esacerbato al punto che o si è fascisti e li si lascia affogare, o si è buonisti e li si accoglie senza riserve, mi tengo strette le mie gradazioni intermedie.
Il fatto è questo: mi considero un eclettico e adoro entrare in contatto con culture diverse; ritengo che la libera circolazione, specie di persone, sia il motore del mondo. Se vivo in un paese, me ne piace un altro, o mi ci si prospetta un trasferimento per lavoro, o mi innamoro e voglio sposarmi con un suo cittadino, parto con un piano, ho tempo di informarmi sulla cultura da cui mi troverò a vivere (spesso, anzi, l’amore per quella cultura è ciò che mi spinge a trasferirmi) e, soprattutto, sono io, un solo individuo.
Ma un numero imprecisato di persone alla deriva, in arrivo in un paese a caso di cui probabilmente sanno ben poco, che magari nemmeno piacerà loro a livello socio-culturale, sono un problema sotto tantissimi punti di vista: economico, infrastrutturale, culturale. Un problema che va riconosciuto come tale, e per risolvere o quantomeno mitigare il quale vanno prese delle misure.

È da giorni che rimugino su un episodio che mi è successo sabato scorso. Ero seduto a mangiare qualcosa con tre amici – due ragazze  un ragazzo – e si è avvicinato uno di quei venditori ambulanti di chincaglieria. “Dai, prendi per moglie, e lui per sua”, fa lui.
No, dico io, non siamo sposati. Davvero, non sono il marito. No, sul serio. Finché una delle ragazze si è spazientita e si è inventata che: “Guarda, sto con lei, siamo lesbiche.”
Ecco, nel giro di un minuto e mezzo, le implicazioni da parte di quello che era un ragazzo probabilmente anche più giovane di me sono state che: a) alla mia età dovrei già essere sposato, b) rigorosamente con qualcuno del sesso opposto, perché c) “No lesbiche! No va bene.”

Sul momento, pur senza esternare nulla, mi sono un po’ incazzato. Come ti permetti?
Fino a prova contraria, siamo a casa mia, dove lesbiche va bene eccome; se a te non va a genio, nessuno ti trattiene, tanti saluti e care cose. Sinceramente, ho fin troppo da fare con gli Adinolfi nostrani, non ho bisogno che arrivino quelli d’importazione a dar loro manforte.
In effetti, una cosa che non tollero è l’atteggiamento di quella che Maajid Nawaz definisce “sinistra regressista”: la diversità culturale non è una scusa per condonare posizioni reazionarie e illiberali per paura di sembrare razzisti. Se al tuo paese le donne non possono guidare, o uscire di casa da sole, o addirittura subiscono mutilazioni, non è multiculturalismo, ma anacronismo o barbarie. Se gli omosessuali vengono repressi o addirittura uccisi, non è “un’altra cultura”, è orrore. E via dicendo. Fartelo notare non fa di me un razzista, né significa che manco di rispetto alla tua cultura: multiculturalismo è vedersi riconosciuto il diritto a mantenere un’identità propria, ma in un’ottica di regole sociali orientate al progresso comune. A maggior ragione se arrivi in un paese che non è il tuo, e ancora di più se queste regole sono più avanzate delle tue in campo di diritti umani: non importa se provieni da un paese in cui la religione è più pervasiva a livello politico e sociale, è una cosa che ti lasci alle spalle nel momento in cui sbarchi qui. Se poi fai certe esternazioni, aspettati gli stessi insulti che si becca la Meloni: farti notare che sei un bigotto del cazzo non manca di rispetto alla tua cultura, né fa di me un razzista.

Ma c’è il rovescio della medaglia.
Come posso pretendere che una persona sradicata dal suo paese, impacchettata e spedita a una destinazione a caso arrivi spontaneamente a un simile cambiamento di mentalità? L’integrazione e il multiculturalismo sono un processo a due direzioni: se la cultura d’arrivo non fa lo sforzo quantomeno di presentarsi, non verrà mai capita.
È irrealistico aspettarsi che uno straniero che arriva in Italia assorba la (relativa) maggiore libertà di costumi se la società italiana lo marginalizza senza pietà. Se lo rinchiude nei centri d’accoglienza, lo tiene sospeso per mesi o anni senza che sappia cosa fare della sua vita, lo lascia a elemosinare o vendere paccottiglia in balia del racket, gli impedisce di mescolarsi col resto della popolazione e assorbirne gli usi. Si va a creare una bolla completamente isolata in cui la gente è, oltretutto, esasperata e ancora meno incline all’apertura.
Mi viene in mente un ragazzo rifugiato iracheno con cui sono uscito l’anno scorso: represso, insospettabile, terrorizzato anche solo a limonare in pubblico perché, se si fosse fatto beccare da qualcuno dei suoi compagni, avrebbe perso quel poco di sistema di supporto che gli rimaneva, visto che la sua situazione gli impediva di crearsene uno nuovo qui. Sì, la colpa è dei suoi compagni che si aggrappano a posizioni superate, e anche un po’ sua che non impara a fregarsene e vivere la sua vita. Ma chi li ha lasciati lì, senza contatti con la cultura occidentale, senza spiegare cosa è socialmente accettabile, perché si è superato quel tipo di discriminazione e perché vivremmo meglio tutti, loro compresi, se superassero quel certo pregiudizio, è la società in cui so sono trovati, la nostra.

Riflettendo sull’avvenimento di sabato, sono arrivato alla conclusione che è proprio vero che siamo noi a creare i mostri di cui abbiamo paura, marginalizzandoli e non mostrando apertura: la crescita personale e sociale avviene tramite il contatto con gli altri, e la colpa sta tanto nel non recepirlo quanto nel non offrirlo.
E poi, pragmaticamente parlando, se noi facciamo la nostra parte, ci mostriamo disponibili, aperti e comunicativi, e loro continuano a non volerne sapere, ecco che ci troviamo davvero in diritto di mandarli a fanculo: noi la nostra parte l’abbiamo fatta, il resto della responsabilità è loro e possiamo farla pesare senza sentirci dire di non aver fatto abbastanza. Che il fine sia un “noi” più ampio, un effettivo miglioramento sociale collettivo per le mele buone, o cercare la superiorità morale per “non essere razzisti ma” nell’ottica del “noi e loro” con le mele marce, forse questo è l’unico compromesso che lascia tutti con qualcosa in mano.

Piccolo inciso finale: mi rendo conto che come discorso può suonare condiscendente, la solita Europa che pretende di mostrare la via al mondo quando ancora non sa da che parte andare. Ma rivendicare che, nonostante tutto il lavoro che c’è ancora da fare, l’Occidente sia politicamente e socialmente più avanti di mezzo mondo in campo di diritti umani… beh, è un dato di fatto, e non c’è “lezione di vita nei luoghi che non ti aspetteresti” che possa cambiarlo. Così come pretendere che tutti gli altri si adeguino non è mancanza di rispetto o colonialismo culturale, è sacrosanto.
Ovviamente, è l’Occidente per primo a doversi ricordare che i diritti civili per tutti, anche per chi arriva, sono i suoi princìpi fondanti, altrimenti siamo tutti con l’acqua alla gola.

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