“Widow’s weeds” significa paramenti funebri, quegli abiti elaborati ed eleganti quanto scomodi che le vedove vittoriane, la regina in primis, si dovevano trascinare fino alla tomba alla morte del marito. Ci si aspetterebbe che un album con questo titolo (Tristania, 1998) sarebbe diventato la mia colonna sonora preferita in questo periodo, un grande funerale musicale perfettamente sintonizzato con il mio stato emotivo. E che avrei continuato con Sirenia, Draconian e compagnia funebre cantante.
Ebbene, stranamente sto trovando molta più consolazione nel pop che non nella patria di tutti i lutti musicali. Probabilmente, perché l’approccio diaristico delle cantautrici suona molto più genuino delle pompose parate celebrative del gothic metal: una Emilie Simon che piange delicatamente il fidanzato morto realmente ha un’autenticità che, per forza di cose, manca alle pallide maghette di Morten Veland, per non parlare dei suoi testi che continuano a rimestare il tema dopo un decennio e mezzo e finiscono per sembrare ancora più forzati e artificiosi. (Discorso a parte va fatto per Anders Jacobsson, che affronta il tema con molta più classe e intelligenza, ma ancora un po’ troppo ostentatazione; idem Amy Lee, più genuina ma ancora esageratamente tragica).
Sto cercando di dare alla musica un valore terapeutico perché, tanto per cambiare, sto reagendo al dolore rimuovendolo. In questi giorni non sento letteralmente nulla. Mi comporto quasi come se la morte di Murka non mi appartenesse già più, ma per farlo mi sono distaccato completamente dalle mie emozioni. Non ho voglia di impegnarmi in nulla, non ho voglia di parlare, me ne sto per lo più seduto a fissare il vuoto e sto scrivendo questo post, cuore in mano, solo perché sono a letto, non riesco a prendere sonno e il cellulare, su cui sto annotando tutto, non mi permette di navigare su Facebook in cerca di oppio virtuale.
A volte, vorrei davvero essere più onesto nell’ammettere che ho bisogno di provare dolore per sentirmi vivo.
Ebbene, stranamente sto trovando molta più consolazione nel pop che non nella patria di tutti i lutti musicali. Probabilmente, perché l’approccio diaristico delle cantautrici suona molto più genuino delle pompose parate celebrative del gothic metal: una Emilie Simon che piange delicatamente il fidanzato morto realmente ha un’autenticità che, per forza di cose, manca alle pallide maghette di Morten Veland, per non parlare dei suoi testi che continuano a rimestare il tema dopo un decennio e mezzo e finiscono per sembrare ancora più forzati e artificiosi. (Discorso a parte va fatto per Anders Jacobsson, che affronta il tema con molta più classe e intelligenza, ma ancora un po’ troppo ostentatazione; idem Amy Lee, più genuina ma ancora esageratamente tragica).
Sto cercando di dare alla musica un valore terapeutico perché, tanto per cambiare, sto reagendo al dolore rimuovendolo. In questi giorni non sento letteralmente nulla. Mi comporto quasi come se la morte di Murka non mi appartenesse già più, ma per farlo mi sono distaccato completamente dalle mie emozioni. Non ho voglia di impegnarmi in nulla, non ho voglia di parlare, me ne sto per lo più seduto a fissare il vuoto e sto scrivendo questo post, cuore in mano, solo perché sono a letto, non riesco a prendere sonno e il cellulare, su cui sto annotando tutto, non mi permette di navigare su Facebook in cerca di oppio virtuale.
A volte, vorrei davvero essere più onesto nell’ammettere che ho bisogno di provare dolore per sentirmi vivo.
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