Saturday, 20 April 2019

Sospeso

Sono mesi che ho da editare delle foto di Lucca.
Sono mesi che cerco di leggere Alla Deriva di Agatha Christie.
Sono mesi che rimando quello e tante altre cose.

Per quanto riguarda le foto di Lucca, in realtà il motivo è semplice: non sono molto sicuro della qualità del mio lavoro, quindi mi lascio prendere dai dubbi e le crisi di coscienza e finisco per paralizzarmi sul posto. (D’altro canto, è uno degli unici shoot che ho fatto pro bono e quindi non c’è il fatto di esser stato pagato in anticipo a mettermi fretta). Prima o poi mi farò passare le paranoie e mi metterò a editare, ma quel giorno probabilmente non sarà oggi, né domani, né dopodomani.

Per quanto riguarda Alla Deriva, ho il vizio di ritardare i “premi” che do a me stesso fino a, uhm, data da destinarsi. Leggere è qualcosa che mi dà gioia, che sento ancora come speciale e che mi piace concedermi alla fine di un momento di produttività per rilassarmi e appagarmi. Naturalmente, non aver ancora finito le foto di Lucca significa che non sono stato produttivo, quindi non mi merito di leggere, quindi Alla Deriva resta lì a prendere la polvere sul comodino. Fossi almeno uno di quelli che non è produttivo perché troppo impegnato a godersi la vita, e invece neanche quello.

La cosa che mi stizzisce di più delle mie procrastinazioni, però, è che ho buttato all’aria l’occasione di celebrare il decennale del mio primo photoshoot con una reflex. Anche se coinvolgere Veronica sarebbe stato impossibile, avrei potuto organizzare qualcosa a Venezia, cercare di ripercorrere i luoghi che avevamo visitato, fare qualcosa che richiamasse il mood generale di quelle foto pur con l’evoluzione stilistica abissale che c’è stata nel frattempo.
Invece, mi sono trovato sospeso su una questione di una certa importanza e di cui non è ancora il caso di parlare qui, e questo mi ha privato dello spirito d’iniziativa su moltissime cose. Non tanto perché mi aspetto di essere chiamato da un momento all’altro – se quel giorno ho organizzato di essere a Venezia, dopo tre-quattro mesi di attesa posso benissimo dire “Senti, bello, se ne riparla dopo il week end” – quanto perché il fatto che non si muova nulla su quel fronte fa sì che abbia paura di muovermi su qualunque altro. Come se un solo fiato potesse sbilanciare una situazione congelata nel tempo e farla precipitare nella direzione sbagliata.

Il che è forse un po’ il motivo per cui non mi decido a fare quelle foto di Lucca: sono un collegamento col prima, e risolverlo significherebbe lasciarmi alle spalle quel momento senza la certezza che ciò che c’è stato dopo porti qualche risultato. Così posso fingere, invece, che non sia ancora passato tutto questo tempo e che il procrastinare altrui non inizi a essere sempre più preoccupante.

Tuesday, 16 April 2019

Opinioni sgarbate

Ho volutamente mantenuto un profilo basso sui social circa il rogo di Notre Dame de Paris (e preferito concentrarmi su Game of Thrones) perché, onestamente, è uno di quegli eventi così brutti da processare che sento il bisogno di farlo in privato. Nulla contro chi esprime il proprio shock e dolore postando, ci mancherebbe, sono scelte personali e ogni metodo per processare qualcosa che ci tocca nel profondo è valido: le critiche sono fuori luogo.
Non scendo nemmeno nel merito dell’ironia che è partita subito perché sono il primo ad avere un senso dell’umorismo molto tagliente e politicamente scorretto, quindi non attaccherò un pippone su come chiesa-istituzione e opere d’arte abbiano due valori diversi e separati: sono piuttosto sicuro che, almeno fra i miei contatti, la gente abbia abbastanza sale in zucca da saperlo e siano battute nate da genuino umorismo, condivisibile o meno.

La mia riflessione nasce dalle dichiarazioni di un certo critico d’arte italiano – sempre lui – che, come al solito, ha anteposto la sua necessità di farsi notare al buon senso e l’intavolare una conversazione costruttiva. Perché è chiaro, no? Succede qualcosa e la prima preoccupazione è quella di fare un commento che, per quanto nei contenuti non sia stupido e offra dei punti giusti e interessanti, nei toni è insensibile, controcorrente a tutti i costi e cerca volutamente di urtare la sensibilità altrui per attirare l’attenzione. Davvero, Coso, quest’atteggiamento ormai puzza di stantio.

“Non mi sembra ci sia alcuna ragione per gridare alla tragedia”, dice lui: del resto, non è stato un attacco terroristico e non ci sono state vittime; la guglia era stata costruita nell’Ottocento e può essere ricostruita ancora.
Oh boy, da dove comincio?

Partiamo dalla natura dell’incidente, va’. Che non ci siano state vittime è una grande fortuna, ma questo non toglie nulla alla perdita del patrimonio artistico, che rende l’avvenimento una tragedia a prescindere. Inoltre, che non si sia trattato di terrorismo non significa nulla: so che la narrativa socio-politica dell’ultima sessantina d’anni ci ha abituati a dover sempre avere un nemico, a dare valore alla nostra identità in base alle minacce e gli attacchi che subiamo, ma persone e cose hanno valore in sé e per sé, e la loro perdita è tragica anche se è un incidente senza alcun dolo. La mancanza di self-worth non è una buona base su cui denigrare l’importanza di un avvenimento.

C’è poi il commento sul lato artistico della faccenda: che la guglia sia stata un’aggiunta postuma, sebbene in uno stile compatibile col resto della chiesa, renderebbe il danno meno grave.
Beh, allora possiamo prendere il discorso, applicarlo a qualunque cosa e dire che chissenefrega se il Campanile di San Marco a Venezia prende fuoco e viene giù, tanto è una ricostruzione del 1912. O pazienza se la Camera d’Ambra dell’Ermitage viene distrutta di nuovo, ce l’hanno ricostruita sotto il naso nel 2003. Ma perché limitarsi, allora? Si può tornare sempre più indietro e arrivare a dire che molte statue romane non sono così importanti, dopo tutto, visto che sono copie di bronzi greci.
Il fatto che un’opera d’arte sia una “riproduzione” (più) recente e non “l’originale” non le toglie valore. Non è da quanto tempo sta lì a darle lustro, ma il posto che ha nella nostra cultura – senza contare che anche dietro una ricostruzione c’è il lavoro e l’esperienza di artisti, artigiani e pure semplici operai: anche quello ha valore.

E fra l’altro, non è una “ricostruzione” qualunque, è Notre Dame de Paris. È probabilmente uno dei restauri che sono stati pionieristici nella formazione del concetto stesso di “conservazione dei beni culturali” come lo intendiamo oggi. Quei lavori, quella guglia, Hugo che ha scritto un intero romanzo oggi iconico non per fare un commento sociale, ma specificamente per attirare l’attenzione sullo stato di una chiesa semi-abbandonata per non farla deteriorare ulteriormente… sono stati uno degli spartiacque tra scavare il Foro Romano per portarsi via il marmo come materiale di costruzione e scavare il Foro Romano per capire come era fatto e preservarlo per le generazioni future. Già solo per quello, originale o no, medievale o ottocentesca, quella guglia occupava un posto importante nella nostra Storia dell’Arte.

La cosa frustrante è che c’era anche un punto ragionevole e interessante sepolto nel discorso sgarbato di Colui Che Mi Rifiuto di Nominare: nessun danno è irreparabile. Solo che, come al solito, lui è un egocentrico troppo occupato a essere edgy a tutti i costi, a fare la voce fuori dal coro e farsi notare, per dire qualcosa di davvero costruttivo.
Se avesse detto che il danno è grave ma oggi abbiamo non solo tecnologie, ma anche studi approfonditi dei nostri monumenti che permettono di ricostruirli virtualmente identici – e che queste tecnologie e studi sono nati in parte proprio sulla scia di quei lavori su Notre Dame – avrebbe avuto ragione di aprire bocca.

Solo che per fare un discorso del genere bisognerebbe prima di tutto mostrare rispetto per la comprensibile risposta emotiva che l’avvenimento ha suscitato, ammettere che è comprensibile e poi ridimensionarla sottolineando che esistono delle soluzioni per contenere e, eventualmente, riparare i danni. Ma il modo migliore per farsi notare è attaccare direttamente la risposta emotiva, calpestare deliberatamente i sentimenti delle persone, così si sentono pungolate e si girano verso di te.

Allora, caro Critico Sgarbato, mi spieghi a cosa servi? Perché il tuo ego non lascia posto per le opere di cui dovresti discutere. L’arte è una forma di comunicazione: se sei troppo innamorato delle tue grida sguaiate per ascoltare, non sei adatto a questo ambiente, figurarsi a questo lavoro.

Apologia del Dracarys 2.0 – update due anni dopo

A suo tempo, ho già eviscerato nel dettaglio come e perché il polverone sollevato dall’esecuzione di quei traditori infingardi di Randyll e Dickon Tarly fosse fuori proporzione (e anche perché quell’intero storyline fosse fatto coi piedi). Però, con l’arrivo dell’ottava stagione di Game of Thrones, lo show ha sentito il bisogno di tornare a parlarne, e il modo in cui lo fa mi irrita parecchio.
Non faccio spoiler e non entro nel dettaglio, dico solo che la questione viene sollevata nella 8x01 (ma quello può intuirlo chiunque abbia un cervello funzionante dal fatto che vediamo quella scena nel recap di inizio episodio) e qualcuno ci resta male.
Niente spoiler, dicevo, perché non è tanto la reazione dei personaggi a urtarmi, quanto il modo in cui lo show affronta la cosa.

D’accordo, il punto è che la Danana potrebbe rivelarsi una regina peggiore di quel che sembra. Ci sta, è tematicamente rilevante e introduce un aspetto interessante (leggi: conflitto) a un personaggio decisamente overpowered e super favorito. Ma perché dev’essere l’incidente coi Tarly il suo orizzonte morale degli eventi? Perché lo show tratta quello come il punto di non ritorno in cui Mhysa, la Distruttrice di Catene, Liberatrice di Schiavi, eroina del riscatto sociale che potrebbe rendere il mondo un posto migliore diventa una despota inaccettabile?

Cioè, in sette stagioni la Danana ha fatto dei faux pas politici, diplomatici, tattici, culturali e morali ben peggiori, e nessuno ha battuto ciglio. Né in-universe, né per come sono stati trattati dal linguaggio cinematografico dello show.
C’è il suo perpetuo white saviour complex, che si ripete di volta in volta sempre uguale: la Danana incontra una cultura straniera, decide quali dei suoi aspetti non le vanno bene e ci passa sopra come un carroarmato. Vero che saccheggio e stupo (Dothraki) o schiavitù (Mereen) sono aspetti culturali che noi, pubblico occidentale del 2019, consideriamo inaccettabili e per i quali le “differenze culturali” non sono una scusante in nessuna circostanza, ma nella narrazione sono ottimi segni del fatto che, come regina, lei non mostra questo gran rispetto per i popoli che va a governare. Cosa le impedisce, una volta arrivata a Westeros (che, per lei, è solo un altro paese straniero in cui non ha mai vissuto) di buttare tutto all’aria secondo la sua visione personale del mondo?
C’è il modo in cui ha messo a ferro e fuoco Yunkai una volta che si è presa gli Unsullied: si è sostanzialmente rimangiata la parola, ha abusato dell’ignoranza dei padroni su come funzionano i draghi e, per liberare gli Unsullied e gli altri schiavi, ha fatto un bagno di sangue. Di nuovo, l’intento è buono e sacrosanto, i padroni si meritavano una punizione, ma i metodi che ha usato sono gli stessi che le si critica nel caso dei Tarly.
C’è il modo disastroso in cui ha governato Mereen: ribadiamolo, la schiavitù non è accettabile e la Danana ha ragione a volerla sradicare, ma poi? Tralasciando l’aspetto socio-culturale difficile da superare, è anche un sistema economico: anche ipotizzando che i padroni siano tutti così oscenamente ricchi che solo prendere i loro soldi e ridistribuirli sotto forma di stipendio agli ex-schiavi basti ad arginare una crisi economica devastante, c’è un intero mercato del lavoro da riformare completamente, e la cosa richiede tempo. Non basta dire “da oggi la schiavitù è abolita” e sperare che tutto vada al suo posto. Sono il primo a criticare di continuo Cersei perché fa le cose e non pensa a cosa accadrà dopo, ma la Danana non è da meno.
E che dire delle sue ultime vittorie militari a Essos? Finché fa un barbecue di capi Dothraki va tutto bene, idem quando plana con i draghi a mettere a ferro e fuoco le navi dei padroni (con equipaggi a bordo), nessuno batte ciglio.

E lo show stesso non ha mai messo in questione, tramite la sceneggiatura o il linguaggio cinematografico, queste sue azioni. O meglio, ci ha anche sviluppato intorno interi storyline (soprattutto per quanto riguarda Meereen), ma ha sempre inquadrato la faccenda prendendo le parti della Danana: tutti quelli che hanno sollevato la questione della legittimità delle sue azioni sono stati mostrati come antagonisti e hanno sofferto una “giusta morte” per le loro idee contrarie.

Ma vogliamo scoperchiare il vaso di Pandora che sono gli altri due grandi eventi pirotecnici di Westeros e come lo show li ha trattati? C’è stata l’esplosione del tempio di Baelor, che è stata la mia più grande delusione: ho guardato la settima stagione specificamente perché ero curioso di vedere le conseguenze delle azioni di Cersei, come la popolazione e la nobiltà avrebbero reagito “in privato”, lontano dal suo occhio vigile. E invece? Tolta Olenna, che è parte lesa, l’incidente è stato sollevato per un grandioso totale di due volte in sette episodi, entrambe con mezza battuta di dialogo: una mentre Hot Pie riassumeva ad Arya cosa si era persa mentre era in vacanza-studio a Braavos, l’altra da Tycho Nestoris così, en passant, mentre negoziava i nuovi termini con la Iron Bank. Così, come se non fosse stato uno degli eventi di maggiore impatto nella storia recente di Westeros. Niente consiglieri che guardano nelle palle degli occhi chiedendosi come possa essere successo, nemmeno una dannata scena di Jaime che fissa il vuoto e riflette su come si sia praticamente rovinato la vita per evitare che Aeris facesse una cosa simile e ora si è trovato la sorella che ha fatto avverare uno dei suoi incubi peggiori. Cos’è, tutti si sono bevuti la storia del “tragico incidente”?
E va bene, direte voi, non c’era bisogno che lo show si soffermasse a stabilire che le azioni di Cersei sono state imperdonabili: abbiamo avuto sette stagioni per capire che è un mostro (post a riguardo in arrivo) che l’orizzonte morale degli eventi non ricorda nemmeno più com’è fatto, da tanto che l’ha già superato. Ma allora Tyrion, la cui caratterizzazione è stata praticamente menomata dalla quinta stagione in poi da quanto lo show si è preoccupato di santificarlo rispetto alla controparte cartacea? Mezza battuta di Davos sul fatto che oh, a proposito, c’era suo figlio su una delle navi che ha fatto esplodere nella battaglia di Blackwater, ma nessuna lunga scena che mettesse in dubbio la validità della sua strategia militare.
Tutto questo senza entrare nel merito di come lo show abbia mostrato in una luce decisamente positiva ciò che è successo ai Bolton e ai Frey.

E invece, per un esercito flambé durante una battaglia e due Taryl arrostiti? Lunghe scene di Tyrion che passeggia per il campo di battaglia coperto di cenere, “No, mia regina, sii clemente”, il pippone fra lui e Varys a Dragonstone e ora pure quest’ultima scena una stagione dopo. Mercanti flambè, navi incendiate, capi Dothraki alla brace vanno bene, ma due traditori giustiziati sul campo di battaglia meritano tutto questo polverone. What the hell, Game of Thrones?
O la Danana ha superato l’orizzonte morale degli eventi già almeno una stagione e mezza prima, e Tyrion con lei addirittura alla fine della seconda, oppure ciascuno di questi eventi è giustificabile. Scegli una logica e sequila: sono tutti casi simili, se vuoi trattarli come esagerati, allora trattali tutti così, se vuoi mostrarli come giustificabili, allora lo sono tutti.
E di nuovo, non mi sto lamentando tanto della reazione dei personaggi, quanto del modo in cui la narrazione e la cinematografia si sono soffermate sui Tarly. Perché spendere così tanto tempo narrativo su una cosa del genere ignorandone mille altre paragonabili dà l’idea di voler creare conflitto dal nulla a tutti i costi, ed è un pessimo espediente narrativo.

Wednesday, 3 April 2019

Bigotta inquisizione

Oggi pomeriggio mi sono imbattutto in un articolo di Gay.it che riporta degli studi condotti dal professor Roberto Baiocco e colleghi, dai quali sarebbe emerso che, in soldoni, i figli di coppie omosessuali non sarebbero svantaggiati nella crescita a livello psicologico o affettivo, ma avrebbero addirittua una migliore qualità della vita legata ad alcuni fattori correlati (istruzione, stabilità della coppia, possibilità economiche, eccetera).
La seconda affermazione lascia un po’ il tempo che trova: ad esempio, le coppie composte da due uomini prese in esame hanno tutte avuto accesso alla maternità surrogata, il che implica che siano abbastanza facoltose e sia quello, più che l’omo o eterogenitorialità, a fornire benefici. Il dato emerso indica comunque che, a livello di sviluppo psico-emotivo, essere cresciuti da genitori dello stesso sesso non comporta svantaggi per il bambino: alla fine, è ciò che conta.

Sarebbe stata una lettura presa e lasciata lì, come se ne fanno molte, se non avessi avuto la pessima idea di andarmi a leggere i commenti. “Poi dopo non lamentatevi della ghettizzazione e della gente che va a Verona”, chiosa uno. “Volete tirarvi la zappa sui piedi? Perché con affermazioni simili capita”, se ne esce un altro. “Che cazzata”, riassume un terzo.
Ed è qui che sbatto la testa sulla scrivania.
Partiamo dalla “cazzata”, va’.
Per i tonti all’ultimo banco: nessuno si è svegliato una mattina e ha fatto una sparata a caso. Quelli riportati qui sono i dati emersi da una ricerca scientifica, né più, né meno. Lo studio di sicuro non è definitivo né assoluto (nessuna ricerca scientifica lo è mai, la scienza è corretta solo fino a prova contraria) e – la prima cosa che ho notato anch’io – può contenere bias statistici che hanno influenzato i risultati.
Detto ciò, prima di bollarla come una “cazzata” con qualche frase fatta, avete qualche dato che vi supporta? Avete fatto ricerche? Avete alle spalle studi di pedagogia e sociologia che vi permettono di analizzare la questione con la stessa cognizione di causa dei ricercatori che se ne sono occupati?

In secondo luogo, pretendere di non divulgare quelli che – ribadisco – sono i risultati di uno studio scientifico perché a qualcuno potrebbero non piacere è sbagliato a prescindere. Non va bene il risultato? Se ne verifica la verosimiglianza, si fanno controricerche, controstudi e si espongono i dati di quelle. Che, a loro volta, sono controvertibili da ulteriori studi. È così che funziona.
Uscirsene dicendo “Non parliamo di questi risultati perché poi quelli si arrabbiano e vanno a Verona” è ideologicamente sbagliatissimo: allora nessuno avrebbe dovuto pubblicare né gli studi che hanno dimostrato che l’omosessualità non è una devianza ma una semplice variazione del comportamento sessuale (umano e non), né quelli che hanno dimostrato che non esistono razze “superiori” o “inferiori”, né quelli che dimostrano che i vaccini non sono dannosi, né qualsiasi altra cosa che possa andare a urtare i preconcetti di qualcuno.
Ora, per fortuna non siamo più nel Diciassettesimo Secolo: non arriva l’Inquisizione a strillare che siamo eretici se le osservazioni empiriche dicono che è la Terra che gira intorno al Sole. Magari è il caso di non contribuire a tornare a quella mentalità?

In sostanza, non entro nel merito dei risultati della ricerca, anche perché non ho le competenze per farlo. Ciò che non condono è l’atteggiamento antiscientifico dietro questo genere di commenti. Sia di quelli che sono pronti a bollare il tutto come una cazzata senza averne le competenze, sia quelli che vorrebbero non si divulgassero i risultati perché vanno a urtare i pregiudizi altrui. Se la mettiamo così, non avremmo dovuto dar credito a nulla e ce ne saremmo rimasti comodi comodi a dar retta alla Bibbia e ucciderli a sassate, quei froci, perché “It’s Adam and Eve, not Adam and Steve.

Tuesday, 2 April 2019

Non voglio abbandonare la nave

Alle due del pomeriggio di oggi si sarebbe dovuta esaurire la coda di pubblicazione del mio Tumblr. L’avevo accumulata spulciando i blog che seguo prima del grande log off di dicembre, da che ero tornato (portandomi sfiga da solo, evidentemente) l’anno scorso.
Se nei primi tempi ho rebloggato un po’ caoticamente ciò che mi è capitato sott’occhio, con svariati post di seguito al giorno, e sono poi sparito per anni ricomparendo solo sporaticamente, a questo giro mi sono organizzato: coda di pubblicazione, un’immagine al giorno alle due del pomeriggio, alternando bianco e nero al colore, con una foto di Florian Neuville a settimana perché è bello ricordarsi i bei tempi in cui faceva arte.
Con questa organizzazione meticolosa, la coda è durata fino a oggi. Solo che, una settimana fa, sono stato assalito da un attacco di tristezza e ho deciso che no, il mio Tumblr sarebbe sopravvissuto. Del resto, quando sono tornato l’anno scorso, ho anche rimpinguato un po’ i periodi di vuoto retrodatando alcuni post in modo da non lasciare buchi nell’archivio: è stata un’operazione faticosa che non volevo sprecare. Così ho aperto tutti i blog che seguo, ho spulciato gli archivi degli ultimi tre mesi, ho ripostato alcune foto che erano state censurate senza motivo, altre ho potuto appellarle anche se erano reblog, ne ho rimosso qualcuna da post con photoset, e voilà, la coda di pubblicazione si è rimpinguata e ho riempito i buchi che si erano creati a causa dei bot troppo zelanti.

Perché tutto questo disturbo per una galleria di opere che non sono nemmeno mie? Specie considerando che, come autore, non ho la minima intenzione di tornare a postare le mie foto?
Perché mi piace collezionare le cose. Perché ognuna di quelle immagini mi ha parlato, mi ha lasciato qualcosa, ha formato la mia visione artistica e mi ha fatto sentire il mondo come qualcosa di più bello. E voglio continuare a sentirmi così, anche mentre la piattaforma mi crolla intorno come fece Splinder. Dovesse chiudere, troverò una soluzione, così come questo blog è nato dalle ceneri del vecchio conservandolo completamente intatto. Internet è il luogo delle mille risorse.