Saturday 20 November 2010

Sessantaquattro vittime


Non è un mistero per nessuno: ho sempre avuto un vistoso debole per Kylie Minogue. Sin dai tempi di Red Blooded Woman e Chocolate ho sempre nutrito per lei una spiccata simpatia, e quando poi, tempo dopo, ho scoperto il video di Where The Wild Roses Grow, dato il mio amore per Millais non ho potuto non iniziare ad amare profondamente anche lei.
Ed in effetti, è stata proprio Kylie, passando per la riva del fiume dove crescono le rose selvatiche, a condurmi verso quel piccolo capolavoro che è Murder Ballads di Nick Cave (sì, lo so, ho scoperto l’ acqua calda). Il loro duetto si trova sul mio iPod da anni e di tanto intanto lo ascolto con piacere, ma è stato dopo aver sentito la cover dei Kamelot che la canzone mi si è fissata definitivamente in testa (con netta preferenza per l’originale, inutile dirlo) e mi è venuta la curiosità di ascoltare l’intero album. Beh, forse avrei dovuto farlo prima; o forse no, non so se avrei avuto la maturità sufficiente per apprezzarlo.

Senza voler aggiungere una recensione alle millemila che si saranno accatastate in quattordici anni, vado dritto al punto: sono rimasto talmente colpito da avergli dato due ascolti nel giro di una sera; e sinceramente sto lì lì per darci il terzo. È spettacolare vedere come nel giro di un’ora di musica si possano accavallare tante situazioni al limite del grottesco narrate ora in termini che non vanno oltre l’allusione, ora con una crudezza che rasenta la volgarità, ora con dolcezza ed eleganza. Tralasciando che la mia preferita resta Where The Wild Roses Grow - e non solo per Kylie o per Millais, ma proprio perché il concetto di uccidere qualcuno per non farlo invecchiare è qualcosa che mi manda terribilmente in solluchero - e che adoro anche Henry Lee sia per la presenza di PJ Harvey che per il suo essere piuttosto attinente alla mia vita dell’ultimo periodo, mi sono goduto un po’ tutti i vari casi di omicidio (ovviamente avere le lyrics davanti è d’obbligo) fra patologici, passionali, squallidi, incomprensibili, rimanendo letteralmente a bocca aperta davanti alla piccola Loretta "Lottie" di The Curse of Millhaven. Davvero, quella canzone è un capolavoro, perfino più dei quattordici minuti di cronaca dettagliata della strage perpetrata nell’O’Malley’s Bar con tanto di nomi e cognomi delle vittime. Ma Loretta è davvero terribile, sia per gli omicidi random, sia per le stragi che ha fatto così, tanto perché all God’s children, they all gotta die. Davvero degna della Kari Rueslåtten più incavolata (e anche lei, fra pistole, incendi, depressioni post-partum, varie ed eventuali è da temere, come Veronica ben sa). E il finale, poi, è un capolavoro: Death Is Not The End, con quell’aria allegra da piano bar o karaoke e tutti i partecipanti dell'album che cantano a turno un verso dopo la catasta di cadaveri delle nove canzoni precedenti fa davvero accapponare la pelle, è più che grottesca, è divina! (Peraltro, è stata una sorpresa trovare, oltre a Kylie e PJ di cui già sapevo, anche Katharine Blake delle Mediæval Bæbes).

Ergo, se volete passare una serata alternativa con tanta ottima musica, cercatevi i testi e date un ascolto o due a Murder Ballads, ringraziate Nick Cave e i Bad Seeds per avercelo regalato e buon divertimento.
Per quanto riguarda me, sono seriamente tentato di fare una serie fotografica ispirata a quest’album: il risultato sarebbe di certo sensazionale.

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