Friday, 15 November 2013

Zara ha aperto a Trieste

Alessandro fa tanto il dark, ma deve solo lasciarsi andare un po’. Secondo me dentro di lui c’è un truzzetto che aspetta solo l’occasione buona per uscire.

Parole sante di Monica, la mia professoressa di filosofia del quinto liceo, pronunciate tanti anni or sono, nel lontano 2008, quando ero in piena fase darkettina, mi conciavo da espositore del negozio di ferramenta, odiavo il pop come se fosse il male, la dance come se fosse la morte, l’elettronica come se fosse il morbo e la moda (quella “mainstream”) per partito preso. Vade retro, tentazioni della superficiale società moderna, io ero un introspettivo dandy dallo spirito romantico che vagheggiava epoche passate in cui la decadenza umana era limitata al popolino ignorante.
Ed oggi, eccomi qui, con Artpop di Lady Gaga in borsa (nemmeno la regular, ho proprio preso la deluxe), di ritorno da uno degli ormai settimanali giri di shopping con Linda, che quest’oggi ha incluso nientemeno che la giornata di apertura del punto vendita di Zara a Trieste, accolto come l’arrivo della Terra Promessa sotto i nostri piedi (e non vice versa). Il tutto dopo aver fatto fuori un cupcake a testa in un localino indie-chic, e poco prima di un club-sandwich in uno dei fast-good trendy del centro.

Se il me stesso di cinque anni fa vedesse il me stesso attuale, probabilmente penserebbe di essere destinato a diventare l’epitomo della superficialità umana: shopaholic, merende di tendenza, in giro per negozi piuttosto che per musei, serate nei pub a bere cocktail o nei club gay a ballare e controllare la fauna, accanito ascoltatore di musica commerciale ed elettronica. Un ragazzino di poche pretese. Oh, e fra l’altro, giusto ieri mi sono deciso a scaricare Matangi di M.I.A., la cafona più cafona di tutta la musica tamarra.
Ebbene, la realtà è semplicemente che, crescendo, sono diventato più onesto. Mi sono stancato di fare solo cose socialmente impressionanti per autoconvincermi di appartenere a una fittizia élite culturale al di sopra delle masse. Adesso abbraccio tutto quello che stuzzica la mia curiosità, e così posso andare all’apericena del Lelephant la sera prima del Picnic Vittoriano, o a vedere Il Lago dei Cigni a teatro ascoltando gli Swallow The Sun subito prima, o fare la fila per il concerto degli Anathema mettendo Bad Girls di M.I.A. nelle cuffie.
Tralasciando poi che M.I.A. è molto più alternativa e sperimentale del 95% del metal e Lady Gaga scrive dei testi a cui le tormentate lyrics gotiche hanno solo di che lucidare le scarpe, ma questo è qualcosa di cui ci si rende conto abbandonando le pose intellettualoidi e accettando il valore della musica “mainstream”. Il problema è che il pop, specie l’electropop, è per lo più un genere schietto, che non si nasconde dietro grosse pretese. Per contro, il metal si configura come genere d’élite, per cui gli ascoltatori si ritengono una specie di adepti della verità, i soli che conoscono il vero valore dell’arte.
La cosa è ancora più evidente nel symphonic metal, che i fan ritengono essere il diretto discendente della musica classica e operistica. I più niubbi sono davvero convinti di ascoltare i nuovi Puccini e Vivaldi, con cantanti dall’impeccabile tecnica che si sperticano in vertiginosi vibrati su melodie raffinate e testi per nulla scontati (dimenticavo che nel comparto testuale sono i discendenti diretti dei grandi maestri del Romanticismo). Ovviamente, più orchestre e più cori ci sono, meglio è.
Beh, è su questa ignoranza diffusa che marciano le varie Tamarrja e Liv Kristine, ritrovandosi a cantare ingolate per un intero album e ricevere comunque mille lodi, per non parlare poi delle lyrics trite e ritrite già all’inizio dello scorso decennio. E dire che basta così poco, basta abbandonare la posa da connoisseur della musica “colta” per capire che non tutto ciò che si traveste da vintage ha valore e consistenza. Che a volte, il quotidiano ha molta più sostanza poiché concreto, figlio del mondo reale.

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