There’s something bemusing about the 1% @ #fyrefestival getting "reality checks" from the whatevs% who still have houses & internet access.— Alessandro Narcissus (@GothicNarcissus) 29 aprile 2017
Lo ammetto: mi sento un filino ipocrita. Il fatto è che l’intera faccenda del Fyre Festival si offre talmente bene a una risata per come una certa fascia sociale abbia sbattuto brutalmente il muso sulla realtà quotidiana di certe altre fasce sociali che è difficile mettere a fuoco che questo stesso divertimento è indice di quanto la nostra società stia sbandando.
Per chi non seguisse le vicende virali su internet, il Fyre Festival è sostanzialmente un incrocio fra Lost, un episodio di Black Mirror e ciò che Alma Coin aveva in mente quando voleva buttare i bimbi di Capitol negli Hunger Games. In sostanza, due tizi che non hanno le minime skill organizzative hanno venduto biglietti da migliaia di dollari per un festival musicale extralusso nelle Bahamas, con tanto di ospiti illustri, ville da sogno, cucina gourmet e attività ricreative costose, marketizzandolo attraverso starlet di Instagram, influencer e quant’altro, a persone che possono permettersi di spendere quelle cifre. Il tutto prima ancora anche solo di pensare a come organizzare il tutto, col risultato che gli ospiti sono arrivati alle Bahamas per trovare una tendopoli senza cibo, acqua corrente, sicurezza e, ovviamente, ospiti musicali.
E… dai, l’intera faccenda semplicemente fa ridere, c’è poco da fare. Da amante della musica, trovo divertente che tanta gente abbia pagato un sovrapprezzo assurdo per il collaterale quando, spendendo la metà, avrebbe potuto farsi tutti i concerti in scaletta individualmente; chiaro, il punto non era la musica proposta, ma lo status symbol, il paradiso tropicale, il lusso… l’esclusività dell’evento. E poi c’è il fatto che abbiano abboccato perché un manipolo di “personalità” di internet ha presentato la cosa su Instagram in maniera sfiziosa, a prescindere da quello che sarebbe stato il contenuto. Questa vicenda si presta talmente bene a un commento sulla società dell’apparire, sulla superficialità del marketing virale, sul consumismo e bla bla che lascerò gli opinionisti seri a occuparsene.
Anche perché, il tempo di inforcare Twitter e seguire l’hashtag per farmi due risate di chi si lamentava della mancanza del lusso prima di accorgersi che non c’erano proprio condizioni umane di base, e il divertimento mi è già passato. Complici anche i commenti di quelli che non fanno parte dell’1% che poteva permettersi l’evento, ma ci mettono comunque becco.
I hope katniss wins #fyrefestival— Emilie Casey (@HeckingEmilie) 28 aprile 2017
Per carità, ce ne sono di davvero divertenti, come quello qui sopra. Però vedo una netta predominanza delle parole “white rich millennial kids”, con le implicazioni sfortunate che si portano dietro. Non tanto il “kids”, perché è vero che la vita ovattata che hanno condotto ha sicuramente contribuito all’ingenuità con cui si sono buttati nella cosa – e pensare che il contrasto stridente ha amplificato esponenzialmente il loro orrore è sadicamente divertente. E ignorerò anche il “white” perché il fatto che indichi automaticamente privilegi non è del tutto scorretto ma nemmeno corretto, ed è un discorso per un altro momento.
Fermiamoci un momento su “millennial” e “rich”: il primo è l’ennesimo commento su come la nostra generazione sia priva di “veri valori” e ignora che qualcuno dovrà pur averci cresciuti così; il secondo è l’unico aspetto della vicenda che la rende divertente. A livello superficiale, è vero: “Boo-hoo, ti tocca dormire in tenda”. Ma a parte che il problema lì era molto più che dover dormire in tenda, se pago per un bene o un servizio, è quel bene o servizio che devo ricevere, punto. A prescindere che costi cinque euro o cinquantamila dollari. “Poor rich kid” è uno stereotipo spesso vero, e di capricci per una manicure scheggiata o un pizzetto non scontornato a dovere è pieno il mondo, ma quel “rich” qui viene brandito come una colpa. E di nuovo, sì, è sostanzialmente un gruppo di gente viziata che ha pagato uno sproposito per un mucchio di roba superflua che con la musica ha poco a che fare, ma qual è il problema, che loro possono permetterselo e noi no? Eh?
C’è poi un ulteriore aspetto che mi disturba non poco: non appena la tendopoli del Fyre Festival è stata paragonata a un campo rifugiati, tutti sono subito saliti sul pulpito a notare con enorme gaudio l’ironia di un mucchio di gente ricca e viziata che si è ritrovata nelle condizioni in cui vivono le stesse persone che vorrebbero non accogliere nei loro paesi. Tralasciando la generalizzazione… e quindi? Questi commenti chi li sta facendo, i rifugiati nei campi profughi o gente che può permettersi l’accesso a internet dalla comodità delle proprie case? Se è giusto che gli amichetti di Kendall Jenner vivano per un giorno da profughi per capire com’è, perché non lo fanno anche quelli che commentano? Magari l’ironia della situazione non sarebbe più così divertente, quando non capita agli altri?
Il punto di questi commenti non è pensare a quelli che stanno peggio di noi e augurarsi (o contribuire a portare) un miglioramento delle loro condizioni di vita, ma bearsi del peggioramento di quelle di gente che sta meglio di noi. Ed è un problema sociale non indifferente. È la versione più divertente e meno crudele di quelli che, quando succede un attentato in una città europea, subito strillano: “Ben ci sta, ci sono luoghi del mondo in cui questa è la realtà quotidiana, almeno abbiamo un assaggio e capiamo com’è”.
No.
No, no e NO. Questo è un ragionamento sbagliato. Il punto della civilizzazione non è dare a tutti un assaggio della brutalità del mondo. Non è peggiorare le condizioni di chi sta meglio per sentirci tutti un po’ più infelici. Il punto di una civiltà sana e prospera è far sì che nessuno viva in condizioni disperate e subisca violenza. Pensare il contrario, che un mucchio di gente ricca si meriti di fare un giorno il profugo per una propria scelta andata male – o che una bomba sotto casa ci “insegni la lezione” – non risolve il problema di chi davvero vive così perché subisce le scelte altrui.
Come ragionamento, non ci dà la superiorità morale per giudicare uno stile di vita che percepiamo come sbagliato. Alla fin fine, è sintomatico della stessa, identica mentalità del riccone che ignora i problemi della gente comune perché tanto capitano a qualcun altro, solo venata dell’invidia di non poter fare altrettanto. Non è lotta sociale, è semplice meschinità.
Per cui, sì, la faccenda del Fyre Festival è oggettivamente ridicola e non si può sfuggire a una certa dose di schadenfreude per come è nata e si è sviluppata. Ridiamoci pure, questi cinque minuti, ma magari riflettiamoci anche un po’, cerchiamo di individuare il vero problema e miglioriamo un filino la nostra mentalità, privata e collettiva, per concentrarci su espandere il benessere invece che imporre il malessere.
Fermiamoci un momento su “millennial” e “rich”: il primo è l’ennesimo commento su come la nostra generazione sia priva di “veri valori” e ignora che qualcuno dovrà pur averci cresciuti così; il secondo è l’unico aspetto della vicenda che la rende divertente. A livello superficiale, è vero: “Boo-hoo, ti tocca dormire in tenda”. Ma a parte che il problema lì era molto più che dover dormire in tenda, se pago per un bene o un servizio, è quel bene o servizio che devo ricevere, punto. A prescindere che costi cinque euro o cinquantamila dollari. “Poor rich kid” è uno stereotipo spesso vero, e di capricci per una manicure scheggiata o un pizzetto non scontornato a dovere è pieno il mondo, ma quel “rich” qui viene brandito come una colpa. E di nuovo, sì, è sostanzialmente un gruppo di gente viziata che ha pagato uno sproposito per un mucchio di roba superflua che con la musica ha poco a che fare, ma qual è il problema, che loro possono permetterselo e noi no? Eh?
C’è poi un ulteriore aspetto che mi disturba non poco: non appena la tendopoli del Fyre Festival è stata paragonata a un campo rifugiati, tutti sono subito saliti sul pulpito a notare con enorme gaudio l’ironia di un mucchio di gente ricca e viziata che si è ritrovata nelle condizioni in cui vivono le stesse persone che vorrebbero non accogliere nei loro paesi. Tralasciando la generalizzazione… e quindi? Questi commenti chi li sta facendo, i rifugiati nei campi profughi o gente che può permettersi l’accesso a internet dalla comodità delle proprie case? Se è giusto che gli amichetti di Kendall Jenner vivano per un giorno da profughi per capire com’è, perché non lo fanno anche quelli che commentano? Magari l’ironia della situazione non sarebbe più così divertente, quando non capita agli altri?
Il punto di questi commenti non è pensare a quelli che stanno peggio di noi e augurarsi (o contribuire a portare) un miglioramento delle loro condizioni di vita, ma bearsi del peggioramento di quelle di gente che sta meglio di noi. Ed è un problema sociale non indifferente. È la versione più divertente e meno crudele di quelli che, quando succede un attentato in una città europea, subito strillano: “Ben ci sta, ci sono luoghi del mondo in cui questa è la realtà quotidiana, almeno abbiamo un assaggio e capiamo com’è”.
No.
No, no e NO. Questo è un ragionamento sbagliato. Il punto della civilizzazione non è dare a tutti un assaggio della brutalità del mondo. Non è peggiorare le condizioni di chi sta meglio per sentirci tutti un po’ più infelici. Il punto di una civiltà sana e prospera è far sì che nessuno viva in condizioni disperate e subisca violenza. Pensare il contrario, che un mucchio di gente ricca si meriti di fare un giorno il profugo per una propria scelta andata male – o che una bomba sotto casa ci “insegni la lezione” – non risolve il problema di chi davvero vive così perché subisce le scelte altrui.
Come ragionamento, non ci dà la superiorità morale per giudicare uno stile di vita che percepiamo come sbagliato. Alla fin fine, è sintomatico della stessa, identica mentalità del riccone che ignora i problemi della gente comune perché tanto capitano a qualcun altro, solo venata dell’invidia di non poter fare altrettanto. Non è lotta sociale, è semplice meschinità.
Per cui, sì, la faccenda del Fyre Festival è oggettivamente ridicola e non si può sfuggire a una certa dose di schadenfreude per come è nata e si è sviluppata. Ridiamoci pure, questi cinque minuti, ma magari riflettiamoci anche un po’, cerchiamo di individuare il vero problema e miglioriamo un filino la nostra mentalità, privata e collettiva, per concentrarci su espandere il benessere invece che imporre il malessere.
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