Friday, 29 November 2019

Filtro nostalgia sugli Anni Dieci

Non è ancora dicembre, ma ci siamo quasi: fra un po’ inizieranno a piovere non solo i bilanci di fine anno, ma anche quelli di fine decade. È il 2019, gente: gli Anni Dieci stanno finendo e improvvisamente ce ne stiamo accorgendo tutti.
Di tracciare un bilancio personale di fine decade, nel mio caso, non se ne parla nemmeno: i miei vent’anni sono stati un periodo estremamente complicato e non saprei nemmeno chiedermi se siano stati positivi o meno, figurarsi darmi una risposta.
Anzi, forse la risposta mi è venuta in mente proprio scrivendo: sono stati vita. Né bene né male, semplicemente vita.
È più facile, invece, immaginare come questo decennio sarà ricordato nella nostra coscienza comune: gli ultimi cinque anni sono stati un tale ininterrotto shitshow che faranno sì che i posteri, se ci saranno, lo ricordino come un periodo di gran turbolenza; per noi che l’abbiamo appena vissuto, si è concluso un decennio estenuante in cui tutto ciò che poteva andare male lo ha fatto. Un incubo ad occhi aperti, uno di quelli che ti fanno domandare se per caso sei morto e ti sei ritrovato all’inferno, perché è esattamente il tipo di mondo in cui ti ritroveresti a vivere per dannazione.

Ma sono poi sempre stati così? Perché della prima metà ho dei ricordi piuttosto belli. A prescindere dalle mie vicissitudini personali, il mondo non era un posto poi così brutto.
Ecco, pensando agli Anni Dieci, voglio pensare a quello: a Tumblr, a quel magico mondo fatto di editoriali di moda, foto hipster con i filtri vintage, vestiti leggeri con stampe fiorate, modelli famosi e bellissimi, capelli a pompadour, borchie e catene rilanciate dal pop, travolto dalla rivoluzione bionica del look.
Mi piace ripensare a internet come il mondo in cui i forum di musica sopravvivevano ancora, sebbene ormai ci si stesse spostando su Facebook. Il picco della tensione online era la faida fra i fan di Madonna e quelli di Lady Gaga, la lotta per la corona del pop, con le altre contendenti che si schieravano più o meno velatamente.
C’è stata Laña del Rey, con le sue labbra a canotto, i suoi occhi tirati, il suo personaggio finto come una banconota da sei euro ma così divertente da prendere in giro, le sue canzonette arrangiate pretenziosamente per attirare quella parte di Millennial (ancora così giovani!) piagata da quella vaga ennui de vivre che ancora non era diventata autentico orrore per le sorti del mondo. (A proposito, ancora non ho ascoltato e recensito il nuovo album, ma non ne ho tutta questa voglia).

Anche se la vera regina degli Anni Dieci, per quanto mi riguarda, è stata Florence Welch. Ché sì, Lungs è uscito ancora nel 2009, ma è stato per certi versi il precursore e codificatore di quel sound e look hipster-chic che associo così fortemente ai primi Anni Dieci. Marina Diamandis è stata la voce della generazione che stava tentando di emergere in quegli anni – la nostra – ma Florence è stata l’incarnazione visiva e sonora di quell’atmosfera fatata, dalla semplicità ingannevole, che aveva fatto di Tumblr il suo tempio.
Ecco, le estetiche di Florence su Tumblr sono come voglio ricordare questo decennio.

Che poi, il decennio non è ancora morto e già gli sto facendo l’eulogia. Ma è come se i primi e gli ultimi Anni Dieci fossero due epoche completamente diverse. Il 2015 è stato personalmente il mio anno peggiore, e come me ne sono svegliato la magia se n’era andata: mi sono ritrovato all’improvviso in un mondo che iniziava a cadere a pezzi e che, di lì a pochi mesi, ha iniziato ad andare a rotoli su tutti i fronti contemporaneamente.

È per questo che mi sono affannato a rimettere in piedi il mio Tumblr dopo l’apocalisse dello scorso dicembre: perché lì dentro, specie nei primi post, è cristallizzato un mondo più semplice, un tempo più felice, e non ho alcuna intenzione di lasciar andare quel ricordo. Forse un giorno riusciremo a superare il casino di questi ultimi anni e allora, a pericolo scampato, il brutto scomparirà e rimarranno gli Anni Dieci di Tumblr da ricordare.

Wednesday, 27 November 2019

Pills For Broken Dreams

Quasi un anno fa, una certa persona, in un certo contesto, mi ha chiesto quali fossero i miei sogni. Non la mia cripta onirica, ma i miei progetti, le mie speranze, le mie aspettative per il futuro.
Mi sono reso conto che non sapevo cosa rispondere.
Non so più quali siano i miei sogni. Non ricordo nemmeno quali fossero prima.
Di sicuro, a un certo punto, devo aver sognato di farmi una famiglia, per lo meno nella versione “ridotta” di una coppia: dopo tutto, sono pur sempre cresciuto con Gomez e Morticia Addams come modello romantico, dev’essere qualcosa che ho sognato.
Probabilmente ho anche sognato di diventare ricco; crescendo sarà diventato poi benestante, e infine economicamente stabile, ma quella speranza dev’essere stata lì. Ricordo distintamente che una delle prime sere a Trieste, nello squallore della camera della casa dello studente, col linoleum blu per terra e le pareti vuote, ho pensato che dovevo sbrigarmi a completare e pubblicare il racconto che stavo scrivendo, se volevo tirarmi fuori da lì.
Quando cantavo nella band, avrò pur sognato che pian piano ci saremmo fatti un nome. Sono piuttosto certo di aver anche sognato, un giorno, di mollarli e andare a fare il solista, ché già allora fare il darkettino a tutti i costi iniziava a farmi sentire limitato.
Naturalmente ho sognato di viaggiare, scoprire nuovi posti, scattare foto ovunque. E, a questo proposito, sicuramente ho sognato di arrivare di fronte a un certo qualcuno con la mia macchina fotografica.
Quella è l’unica certezza che ho ora. Per il resto, tiro a indovinare: nulla di tutto ciò mi fa sentire nulla, in questo momento. Nemmeno la condiscendenza con cui si ripensa a quando si era giovani e ingenui, quando si pensava che fare il passo più grande della gamba fosse facile. Nemmeno l’imbarazzo per aver immaginato qualcosa di stupido e infattibile.
Niente. Come se fossero appartenuti a qualcun altro.

Per il futuro, non riesco proprio a immaginare qualcosa. Un po’ è perché il mondo sta girando così velocemente che un futuro immaginato dieci anni fa è già obsoleto e inapplicabile. Un po’ perché l’attuale situazione sociale, politica ed economica è talmente disastrosa che fa temere anche solo per l’indomani, figurarsi se permette di fare piani a lungo termine. Ma principalmente non ricordo più come si fa a sognare.
O per lo meno a sognare in grande e nel concreto. Quel fatidico incontro mi aveva fatto ricominciare a fare qualche piccolo, sporadico sogno: non ammazzarmi di commissioni alle fiere, tanto per cominciare. Ma anche qualcosa di più superficiale, tipo potermi permettere un viaggio a Barcellona per farmi un tatuaggio da Elijah, la rosa araldica dei Tyrell per ricordarmi sempre che le miniere si prosciugano, l’inverno finisce e le rose sbocciano di nuovo.
E invece, grazie per l’ennesima delusione.
Se non altro, mi aggrappo alla consapevolezza che non posso prendermela con me stesso, per una volta: più di così non avrei potuto fare.
Però ho di nuovo paura di sognare anche in piccolo. Di sicuro non rimparerò entro breve a sognare in grande.

Where are my pills for broken dreams?
Where are my furs, my plastic gleam?
Please, entertain: the lights are on.

Thursday, 21 November 2019

Cristallizzato

Ho sempre pensato che le mie foto fossero, per la maggior parte, dei racconti allegorici. Tolte alcune che nascono solo per essere esteticamente piacevoli, cerco sempre di narrare qualcosa tramite loro: un’emozione, un’idea, una storia, la mia interpretazione di un elemento della cultura a cui appartengo. Del resto, perché creare delle vuote immagini solamente decorative?
L’allegoria, però, sta nel fatto che, a parte alcune immagini apertamente autobiografiche, c’è sempre un filtro, un simbolo che si frappone fra le emozioni che ci metto e l’immagine finita: di solito, questo filtro è la musica. È come un gioco di specchi: ascolto una canzone, ci proietto sopra le emozioni che fa risuonare dentro di me, e quella me le riflette indietro sotto forma di immagine mentale su cui basare la foto. C’è quindi quasi sempre una componente autobiografica, ma indiretta: sono emozioni che sento, sì, ma genericamente, associate più alla canzone che le risveglia che al momento in cui ho scattato la foto.

Non mi aspettavo, quindi, di ritrovarmi a sfogliare foto di qualche anno fa e sentirmi come se mi entrassero sotto le costole e me le strappassero via per lasciare il cuore esposto.

A forza di pubblicare meticolosamente l’intera mia gallery su La Terra dei Cachi, un nuovo gruppo a cui mi sono iscritto, sono arrivato a cavallo fra il 2011 e il 2012, l’anno della mia grande fuga da me stesso (quello durante il quale non riuscivo a resuscitare il blog dopo la morte di Splinder e di cui i miei lettori non hanno idea).
Ebbene, rivedere quelle foto riporta a me quei tempi con la stessa potenza di quando li ho vissuti. Le stesse emozioni, fresche come appena provate: l’incertezza, la confusione, l’isolamento, la delusione, il senso di tradimento, l’euforia, la spensieratezza, la frivolezza… tutti i motivi per cui finivo a Milano almeno una volta al mese, e adesso la evito quanto più possibile.

E mi sono reso conto che la stessa cosa accade con molte altre foto, a tutti i livelli della mia linea temporale. Perché se è facile che le foto che ho scattato nel 2014 subito dopo la morte di Murka mi riportino il lutto di quei giorni – del resto, le ho scattate nello stesso luogo dove l’ho seppellita – è meno ovvio che quelle che ho scattato nel 2013 il week end in cui la Mater mi ha chiamato per dirmi che era stata male la prima volta mi riportino indietro a quel periodo.
E prima di allora, fra il 2010 e il 2011, sento nuovamente il tumulto della mia carriera universitaria che cadeva a pezzi, della nevrosi che iniziava a masticarmi, i sensi di colpa, l’inadeguatezza, ma anche il puro e semplice piacere di riuscire a fregarmene e partire per Londra o per Stavanger a vedere la mia band preferita.

È tutto lì, cristallizzato nelle foto che ho scattato. Non mi aspettavo che, mentre al pubblico raccontano la storia che ho deciso di costruire, a me raccontano la mia autobiografia, riportandomi anno per anno, mese per mese, settimana per settimana, momento per momento, a ciò che ho vissuto negli ultimi dieci anni.
E sono grato di questo. Mi sento spesso come se avessi passato tutto questo tempo addormentato, senza che mi succedesse nulla, senza che io provassi nulla, mentre non è stato affatto così. Le mie foto mi dimostrano che ci sono, ho vissuto, esisto. Ed è una cosa bellissima.

Friday, 15 November 2019

Primadonna Boys & Girls

Marina & The Diamonds è diventata meno relatable ultimamente. Al di là dell’insipidità musicale di Love + Fear, che comunque i suoi pregi li ha, il problema è proprio a livello di testi. I fan dello snark, dell’ironia e autoironia pungenti, della disfunzionalità sezionata, analizzata, spiegata ed esorcizzata, della critica sociale tagliente – insomma, i Diamonds – si sono improvvisamente trovati orfani. Gli outsider che trovavano conforto nel vedere una persona così brillante piena delle loro stesse insicurezze sono finiti nuovamente marginalizzati. Tutti i terrorizzati dei sentimenti sono finiti impantanati in una melassa amorosa che ha finito per farli impietrire. Un disastro.

Che poi, non è nemmeno colpa di Marina: lei è cresciuta, è andata avanti con la sua vita, ha trovato un partner, una sua dimensione nel mondo, un equilibrio. Noialtri, che non abbiamo neanche una frazione della sua stabilità socio-economica, figurarsi i mezzi per pagarci la lunga terapia di cui abbiamo bisogno, siamo rimasti indietro ai tempi di Electra Heart, massimo di Froot, e quest’improvvisa positività ci è risultata vuota e artificiosa.
Da fan, sono genuinamente contento che Marina stia bene con se stessa e stia attraversando un momento felice, ma mentirei se negassi che è stata una clip di Bubblegum Bitch postata su Instagram a convincermi a prendere il biglietto: Marina è un po’ un’aliena per me, un po’ come un millennial felice e sano di mente è un ossimoro; sono andato lì per Marina & The Diamonds.

Fatta questa doverosa premessa, il giorno dopo e già sul treno di ritorno, sono contento di essere andato a vederla dal vivo. In primo luogo perché è stata la sua prima volta in Italia da headliner, era visibilmente elettrizzata all’idea e ha dato il massimo. In secondo luogo perché non ha trascurato il passato e ci ha accontentati con tutti i cavalli di battaglia storici – del resto, è evidente che conosca i suoi polli, visto che una canzone l’ha dedicata a “all the primadonna boys and girls”. Così come sa che, tolti i buttafuori, gli etero lì dentro scarseggiavano ed erano lì solo per accompagnare le morose, probabilmente sa anche che non tutti abbiamo raggiunto il suo grado di soddisfazione nella vita.
Il fatto è che la Marina che sento “mia”, quella che “mi ha messo i microfoni in camera e ha scritto una canzone su di me”, era lì sul palco assieme alla nuova, ed è stata un’esperienza a cui non avrei rinunciato per nulla al mondo.

L’altro highlight della mia breve gita milanese è stato che ho passato buona parte del pomeriggio con Stefano e siamo andati a fare foto al Parco di Villa Reale a Monza. Niente di studiato a tavolino, cambio di programma repentino come ci siamo accorti che non avrebbe piovuto, giusto il suo nuovo cappotto come base per imbastire un mood generale, e siamo partiti all’avventura fra gli alberi.
Ed è stato bello. È stato liberatorio. Mi ha ricordato il divertimento di fare foto senza preoccuparmi di far quadrare i conti, di accontentare un committente, di mostrarmi professionale e impeccabile, di far finta a tutti i costi di essere perfettamente in controllo. Per quanto ami concentrarmi su foto che ho progettato da tempo immemore, è bellissimo anche uscire semplicemente con uno dei miei più cari amici, cogliere l’ispirazione del momento, sperimentare sapendo che, male che vada, cestino tutto, e divertirci assieme.

È bello non sentirsi giudicati nel fare qualcosa che si ama. Così come è bello scoprire che qualcun altro può creare qualcosa di bellissimo dalle stesse brutte emozioni che sentiamo anche noi.

Tuesday, 5 November 2019

Girini & compagnia

Sto per fare un’osservazione molto scontata: la mente di un bambino funziona molto diversamente da quella di un adulto.

Quando ero molto piccolo – parlo di quando i miei genitori erano ancora sposati, pensate un po’ – mi fu regalato un libro che spiegava, in un formato comprensibile e adatto alla mente di un quattro-cinquenne, come nascono le cose: i girini, gli uccellini, i gattini e i bambini. C’era un’illustrazione che spiegava che i bambini e le bambine sono anatomicamente diversi, che quando crescono diventano ancora più diversi, e che quando due persone sono adulte e si amano molto possono fare un bambino insieme. Quell’illustrazione la ricordo: erano una signora bionda e un signore bruno (coincidentalmente come la mia mamma e il mio papà) abbracciati sotto le lenzuola. Nell’illustrazione dopo, la signora aveva il pancione.
Sapevo che era così che nascevano i bambini, ma l’intero prcesso era molto vago e privo di dettagli per me: ricordo distintamente un’immagine mentale in cui questi cosettini piccoli piccoli uscivano in qualche modo dal papà, zompettavano in fila indiana sulle lenzuola, si arrampicavano sulla pancia della mamma e così poteva nascere un bambino.
Anche il concetto di “stare insieme” era molto vago e astratto per me: due persone che stanno insieme si tengono per mano, si abbracciano, si danno i baci, hanno una casa insieme, dormono nello stesso letto e si vogliono bene. Qualche volta fanno un bambino.
Ai tempi ancora non si parlava quasi per nulla di omosessualità, ma credo che, se fosse spuntato fuori l’argomento, mi sarebbe stato detto che sono sempre due persone che “stanno insieme”, si tengono per mano, si abbracciano e tutto il resto; al massimo no, tesoro, due uomini o due donne non possono fare un bambino, ne adottano uno già pronto. E la cosa sarebbe rimasta lì.
Ricordo anche che a sei anni ero a casa della mia fidanzatina Vanessa: ci eravamo nascosti sotto il letto perché la Mater era venuta a prendermi ma io non volevo ancora tornare a casa, e ci eravamo addormenati. Wow, avevamo dormito insieme, come fanno gli adulti! Eravamo entrambi piuttosto orgogliosi della cosa, perché quello era il punto massimo che due persone che stanno insieme possono raggiungere, no? Che bravi!

A casa mia, quindi, non ci sono mai state cicogne, api, fiori, foglie di cavolo o altre bugie bianche: i bambini venivano da una mamma e un papà. Eppure, non ho mai nemmeno immaginato cosa potesse essere il sesso fino a molto tempo dopo, quando il mio amico Roberto mi elargì la sua erudizione fatta sulla tv via cavo. Fino ad allora, ero a conoscenza della faccenda, ma aveva connotati molto astratti, innocenti e privi di ramificazioni pratiche.

Ricordando tutto ciò, non posso non incavolarmi pesantemente con quelli che sbandierano i bambini come scudi per i loro pregiudizi.
“Come spiego a mio figlio due uomini che si baciano?”
Nello stesso modo in cui gli spieghi un uomo e una donna che si baciano, semplice. Tanto non afferrerà nulla oltre il concetto astratto che “si vogliono bene” e “stanno insieme”, perché la mente del bambino non elabora oltre.
Se poi è a te, genitore bigotto, che turba vedere due uomini o due donne che si baciano perché li immagini subito a fare sesso (e, segretamente, senti quel languoirino in fondo alla pancia), beh, è un altro discorso. Almeno sii onesto e non nasconderti dietro il dito: è un pregiudizio tuo, il bambino non centra.
Perché, ripeto, la mente di un bambino funziona diversamente da quella di un adulto: vedere due persone che si tengono per mano, che si abbracciano, perfino che si baciano non lo espone al sesso, omosessuale o eterosessuale che sia. Non arriva a fare quella connessione, non deduce cosa faranno quando poi arriveranno a casa.
E se invece lo deducono, beh, il problema non è più la coppia che si bacia. Il problema è che gli assistenti sociali dovrebbero fare una visita a casa di quel bambino il più presto possibile,