Tuesday, 30 September 2014

Riflessioni su una giacca in broccato rosso

Mi sento un po’ una brutta persona, ma sto scoprendo di godere davvero della sensazione di libertà che si prova a non avere più un giudizio distruttivo che pende sopra la testa per ogni minima cosa. Musica, serie tv, fotografia, abbigliamento, amicizie… ogni cosa. Ammetto che, essendo abile a riconoscere a naso le critiche costruttive da quelle distruttive, il tempo di inquadrare i miei interlocutori e le seconde mi scivolano addosso. Tanto, non si fosse trattato dei miei pantaloni nuovi sarebbe stato l’ultimo video che ho condiviso in bacheca, o stavolta sono le scarpe ma avrebbe potuto essere la canzone con cui sono ossessionato: insomma, critiche e giudizi dati gratuitamente per il solo gusto di ascoltarsi dare critiche e giudizi supponenti, qualsiasi sia l’oggetto. È così che ho scoperto che si può voler bene a qualcuno senza stimarlo o tenere in conto la sua opinione. Poi per carità, anche a me piace da morire avere ragione e crogiolarmi nella superiorità del mio buon gusto, ma c’è una linea oltre la quale la tuttologia diventa patologica.

La parte più triste, in un certo senso, è notare tutto ciò nelle piccole cose: anche solo il ritrovato piacere di condvidere un link con dei vestiti che ti piacciono senza la consapevolezza che tempo tre secondi e arriverà lo sberleffo travestito da critica. Sberleffo di cui frega poco, ma la cui assenza lascia più spazio ed energia per godersi le foto degli abiti.
(A parte che, detto tra noi, chiunque può conciarsi in maniera ridicola e spacciare il look per avanguardia pura incompresa dalle masse retrive; indossare un classico riadattato è molto più impegnativo e non è da tutti.)
E quindi, eccoci qui, a chiederci cosa sia andato storto e far finta di non conoscere precisamente la risposta. Dal canto mio, mi costa dirlo: Luana non mi ha insegnato proprio niente.

Sunday, 28 September 2014

Non è mai troppo tardi

Ad essere sincero, non sono mai stato un grandissimo videogiocatore. Voglio dire, sin da ragazzino ci passavo su le ore e mi ci diverto un mondo, ma non sono mai stato particolarmente bravo. Come un po’ in tutte le cose che faccio, svolazzo su un livello di dignitosa mediocrità che mi permette di riuscirci e anche divertirmi, ma rimanendo ben al di sotto della gente davvero brava – come ad esempio Roberto e Vasco, i miei migliori amici delle elementari che puntualmente finivano tutti i giochi prima di me.
Del resto, fatta eccezione per Luigi’s Mansion (dove c’è poco da non finire) e i Pokémon, dei quali, finché ho giocato, ho completato almeno un gioco per generazione (gli altri erano il serbatoio per completare quello), da bambino e adolescente non ho mai finito un videogioco. Ok, non so quanto si possano considerare Yoshi’s Story e Final Fantasy VIII: del primo ho sbloccato tutti i livelli, ma ho raccolto il punteggio massimo solo in pochi; il secondo l’ho finito in lungo e in largo, ho svolto tutte le trame e sottotrame, parlato con chiunque, visitato ogni location, ma non ho mai sconfitto l’Omega Weapon. Me l’ero lasciata sulla lista delle cose da fare quando ci giocavo su pc nel 2009-2010, ma poi il computer ha reso l’anima, quello successivo pure, ho tirato a campare finché ho potuto con loro che si bloccavano con nulla (figurati mettere su un gioco) e poi ho preso il Mac, su cui dei dischi per Windows risalenti agli Anni Novanta non girano proprio.

Ebbene, due anni fa, durante le vacanze, ho finito Super Mario 64 per la prima volta. Esatto, il Super Mario del 1996 (e ok, io l’ho avuto nel 1999, ma la sostanza non cambia): nel mio file storico, quello che iniziai da bambino, avevo sconfitto Bowser e tutto, ma ero bloccato a 119 stelle su 120, senza capire dove fosse l’ultima. Avevo iniziato altri salvataggi nel corso degli anni, ma li avevo sempre abbandonati dopo un po’, fino a che non ne ho iniziato e portato avanti uno con ordine e metodo – non andavo avanti ai mondi successivi fino a che non avevo fatto tutto in quello attuale – e ho scoperto casualmente la stella che mi mancava (e per “casualmente” intendo una caduta in cui pensavo di schiattare, e invece). Ammetto che il file A l’ho completato più per puntiglio che per altro: quel 119 mi ha sempre dato un fastidio immenso (ero convinto di aver saltato un Toad e che una volta sbloccato il livello successivo non mi desse più la stella), perché in quel salvataggio c’è molto di non mio: alcune delle stelle più difficili, che nei salvataggi successivi sono riuscito a prendere, le avevano ottenute Roberto e Vasco quando ci trovavamo per passare i pomeriggi tutti insieme incollati allo schermo e col controller in mano. Perché, appunto, erano troppo per il mediocre me-videogiocatore di dieci anni.

Fra ieri e oggi ho invece finito Super Mario Sunshine (questo qui dopo solo dieci anni). Qui lo ammetto: è stata una questione di pigrizia. Il file A l’avevo abbandonato a 112 soli custodi e ne avevo iniziati altri nel frattempo, ma per mancanza di ordine e metodo non sono mai andato fino in fondo. A inizio mese ho deciso di mettermi sotto e farmene uno da cima a fondo, stavolta con ordine e metodo. In realtà, nell’A dovevo prendere solo qualche sole custode segreto sparso qua e là e raccogliere tutte le monete blu, per cui, una volta finito il C ieri notte, oggi mi sono messo d’impegno e ho finito anche quello storico, sempre per non lasciare le cose in sospeso (e che lavoraccio ricordarmi quali monete blu avessi già preso e quali no in ogni livello dopo anni). Non che questo mi renda improvvisamente un videogiocatore di talento, ma sono piccole soddisfazioni che volevo togliermi da quando ero piccolo. E, forse, in fondo non è mai troppo tardi per farlo. Dovrei ricordarlo in molte altre cose che non riesco a finire per paura che ormai sia troppo tardi.

Tuesday, 16 September 2014

Bitches never bothered me anyway

Il talento nel riscrivere seduta stante i testi delle canzoni in modo da mantenerne la metrica ma dando loro un personalissimo significato umoroso e bitchy l’ho preso tutto da mia nonna materna, che a ottanta e passa anni ha dato più di una dimostrazione quando, nel 2007, io e la Mater siamo andati a trovarla.
Così, partendo da un commento un po’ cattivo di Katia, Let It Go è diventata Trololo, perché “the gossip never bothered me anyway”.

Claudio Rossi Marcelli scrive su Internazionale che, più che quella del matrimonio gay, il problema è la mancanza del divorzio gay. Finché si sta insieme, tutto va bene e non c’è molto di che preoccuaparsi se lo stato non riconosce ufficialmente la relazione; il problema sopraggiunge quando si è vissuto a lungo insieme e magari si ha dei figli, e la legge non dà alcuna linea guida su come gestire la situazione.
Beh, non che la cosa mi tocchi personalmente (sono troppo giovane per preoccuparmene, e quando avrò l’età giusta sarò felicemente all’estero), ma apprezzo molto l’approccio alla cosa: quando si pianifica una relazione di qualsiasi tipo, la si deve considerare per prima cosa dalla prospettiva della fine.

L’eventualità di perdere persone per strada ho imparato a considerarla sempre e comunque anche io, qualsiasi siano le circostanze; per questo, osservo attentamente i miei amici quando sono loro a lasciare qualcuno. Li ascolto, vedo come si comportano e, per quanto possa volere loro bene, agisco di conseguenza. Se vedo che qualcuno ha un rapporto estremamente distruttivo con i suoi ex amici, cerco di mantenermi sempre un po’ di margine di manovra intorno. Conosco un certo numero di persone, ho pochi amici fra queste, e quelle a cui dico davvero tutto sono un numero ancora più esiguo. Se vedo che una persona non è affidabile quando si tratta degli altri, per quanto la cosa possa divertirmi, posso dare per scontato che non lo sarà nemmeno con me. Posso volerle bene, ma non mi apro mai veramente: né sentimentalmente, perché non è improbabile che, prima o poi, mi unisca all’interminabile schiera di ex amici, ma neanche in quanto a confidenze. Insomma, se c’è qualcosa su di me con cui so che potrebbe davvero ferirmi, me la tengo e pace. Così, quando con i suoi nuovi amici sparlerà di me come con me ha sparlato dei suoi vecchi amici, non solo non sarò sorpreso, ma ho già una mano sul battente della porta. In questo modo, se capitano incidenti di percorso, nel momento in cui capisco che non vale più la pena riesco presto e senza rimpianti a dire: 

let it go

Elsa says, BITCH.

Sunday, 14 September 2014

Enfasi su “today”

Penso che, sotto sotto, Katia abbia ragione quando parla di me. Io faccio del mio meglio per dimostrarle che sono una bitch cattiva e meschina e lei se la ridacchia e mi dà un buffetto virtuale sul naso. Un po’ mi secca, ma ha ragione: con tutto che sono convinto di essere una persona vendicativa, pronta a passare come un carroarmato su chi mi fa torto, alla fin fine non lo faccio. Anche se ne vale la pena e ne ho i mezzi. Del resto, da anni continuo a passare per il grande stronzo di turno con una persona che oggettivamente non stimo solo perché non mi va di sputtanare un mio ex amico e, con lui, un’altra sua amica, con tutto il loro castello di gossip. Eppure mi ha pestato malamente i piedi e non ci parliamo da due anni.
Non lo ammetterò mai, ma la cosa mi rincuora: sono cresciuto con una figura pessima davanti agli occhi, qualcuno che ha passato un intero decennio inseguendo un complicato piano di vendetta ed è passato sopra ogni cosa senza preoccuparsi dei danni collaterali pur di rovinare la vita di un’altra persona. Fallendo miseramente, oltretutto, e ritrovandosi senza niente in mano alla fine. Io non voglio essere così, e visto che la genetica già non è dalla mia, è il caso che mi dia una regolata. Un passettino in questa direzione l’ho fatto, perché davvero, certe cose non ne valgono la pena.
Alla fin fine, Regina è sempre il mio role model. Siamo molto simili, abbiamo una pessima genetica e un pessimo esempio che ci portano a macchinare il peggio del peggio, ma alla fine scegliamo di essere persone decenti, per oggi.

Friday, 12 September 2014

Ascesa e caduta di New York

Su Facebook seguo una minima parte dei miei amici: quasi tutti li tengo lì ma li ho oscurati dalla mia dashboard per la stupidità dei contenuti che pubblicano. Così, la quantità di post sull’11 settembre che mi ha invaso il feed ieri è stata talmente irrisoria da non farmi nemmeno realizzare che giorno fosse. Me ne sono reso conto solo quando, aprendo deviantART, mi sono ritrovato un post di ringraziamento accompagnato da una gif delle Torri Gemelle sullo sfondo della bandiera americana.
Inutile dire che questo sfogo di patriottismo mi ha irritato non poco: tutti bravi a riempirsi di foto e gif delle Torri Gemelle, e intanto al loro posto hanno costruito quell’obbrobrio del 1WTC.

L’11 settembre 2001 me lo ricordo come se fosse ieri. Avevo dodici anni. Stavo guardando la tv e avevo messo le repliche della Melevisione in mancanza di alternative. L’episodio era quello sul “compleanno” dello spettatore, che ricordavo essere particolarmente noioso, per cui sotto sotto speravo che lo interrompessero. Chiedi e ti sarà dato, TG3 edizione straordinaria. La North Tower in fiamme. Nelle successive ore sono rimasto incollato allo schermo in preda all’orrore, assistendo allo schianto sulla South Tower, al suo crollo, fino al collasso della North Tower. E lì il mondo è crollato addosso a me.

Molti di noi, che sono stati bambini negli Anni Novanta, ricorderanno le variegate serie di videocassette della DeAgostini. Io seguivo avidamente quelle su l’Universo di Piero Angela e quelle di Città del Mondo, in cui ti descrivevano un po’ di storia, cultura e cose interessanti da vedere delle principali città mondiali. Anche il mio migliore amico Roberto seguiva Città del Mondo, e ovviamente la nostra videocassetta (e città) preferita era la prima della collana, New York. Conoscevamo quei quaranta minuti di video a memoria (credo di essere tutt’ora in grado di citarne alcuni pezzi), ma nonostante ciò lo riguardavamo a intervalli regolari fantasticando sul giorno in cui finalmente avremmo visitato la città: quali grattacieli visitare per primi, quali tenere per ultimi, quali quartieri avevano la precedenza. Il suo grattacielo preferito era l’Empire State Building. Io adoravo il Woolworth Building e il Chrysler Building (sì, il Neogotico e l’Art Déco mi piacevano già in tempi non sospetti), e avevo anche un debole per il World Financial Center, specie il Three (quello col tetto a piramide) e il Winter Garden. Ma indovinate quali erano i miei grattacieli preferiti?
È imbarazzante e non ricordo di chi fosse stata l’idea, ma eravamo talmente presi da questo nostro sogno di visitare New York che alle elementari avevamo anche disegnato delle strip di fumetti antropomorfizzando i grattacieli di New York e dando loro mille avventure. E ovviamente, mentre le sue strip si incentravano sull’Empire State Building, le Torri Gemelle erano le protagoniste delle mie. Non so nemmeno perché fra tutte le meraviglie architettoniche di New York trovassi quelle due scatole di cemento così belle e affascinanti, ma la visita al terrazzo panoramico al centodecimo piano della North Tower sarebbe stato il culmine della mia vacanza a New York. La città e la sua skyline erano talmente entrati a far parte del nostro immaginario e delle nostre aspettative che la amavamo davvero tanto.

Quando ho visto le torri in fiamme, il mio sogno newyorkese mi si è letteralmente sgretolato davanti. Non capivo. Cosa diamine era successo? Perché non spegnevano quell’incendio sulla North Tower? Lì per lì sembrava ancora una brutta faccenda ma innocua, non ci voleta tanto a gestirla. Almeno fino a quando il secondo aereo (o qualunque cosa fosse) si è schiantato contro la South Tower. Lì mi si è gelato il sangue: non era più un caso.
Quel pomeriggio ho pianto come si può piangere quando l’infanzia termina. Non mi importava nulla, assolutamente nulla, delle persone lì dentro, di quanti si buttavano nel vuoto dalla disperazione, di quante soffocavano per il fumo, del loro terrore, dell’aspettativa. Potevano morire tutti fino all’ultimo: a me importava soltanto che quell’incendio si spegnesse e quei due grattacieli non crollassero. E al diavolo il Pentagono, quello poteva essere raso al suolo, per quanto m’importava. Quando gli inviati tagliavano ad Arlington avrei ammazzato pure loro, dato che bevevo febbrilmente ogni secondo delle immagini delle Torri Gemelle che mi scorreva davanti, sperando in qualcosa, qualsiasi cosa, che rimettesse tutto a posto.
Ci fu un’ironia davvero crudele, perché dal momento del secondo impatto fino alla fine ho sperato contro ogni logica e buon senso. La prima a crollare è stata la South Tower. E io, in lacrime, speravo ancora: la North Tower è la mia preferita delle due. Fa’ che si salvi almeno quella. Anche solo quella, qualsiasi cosa, anche se crolla la punta, ma fa’ che il grosso si salvi. Tutt’ora sono incredulo quando leggo che l’intera faccenda è durata poco più di un’ora e mezza: io ricordo un pomeriggio eterno, ore e ore e ore di orrore isterico davanti alla tv, fino a quando una delle cose che, per quanto irrazionalmente e infantilmente, amavo di più al mondo è scomparsa senza lasciare traccia.

Nel mio essere ancora poco più che un bambino, le notti successive ho avuto gli incubi: il crollo dell’Empire State Building, del Chrysler Building, dell’allora PanAm Building, uno o più a notte. Con Roberto ci eravamo persi di vista da quando eravamo andati alle medie, ma in quelle settimane ci siamo visti ogni giorno, scandagliando radio, tv e giornali in cerca di notizie precise: tanto per cominciare, quanti piani delle Torri Gemelle si erano salvati? Dai, era impossibile che fossero crollati tutti, e se almeno una decina erano ancora in piedi, le avrebbero sicuramente ricostruite. Ricordo ancora come lui cercasse di rassicurarmi dicendo che aveva sentito per certo che almeno qualche piano era ancora in piedi. Rassicurazione che è crollata quando un’amica della Mater che vive a Brooklyn ha confermato (per telefono, allora non c’era Skype) che non era rimasto nulla. Niente. Ground Zero.

Anche dopo che, superato lo shock immediato, io e Roberto siamo tornati a non vederci, sono rimasto incollato ai notiziari per capire qualcosa. Tutt’ora non mi frega nulla di quanta gente sia morta nell’attacco e negli eventi che si sono succeduti da allora. Le guerre che ne sono seguite mi hanno irritato da morire, e ucciderei Bush con le mie mani non solo perché, contrariamente a qualsiasi teoria del complotto più o meno assurda, quella sull’11 settembre la reputo abbastanza plausibile, ma anche e soprattutto perché è colpa sua se non posso portarmi lo shampoo nel bagaglio a mano. Ma la vicenda che ho seguito con maggiore trepidazione, se non addirittura ansia, sono state le decisioni dell’amministrazione di New York sul destino di South Manhattan. Rassicurato che Three World Financial Center non rischiava davvero di crollare nonostante i danni, e che il Winter Garden sarebbe stato restaurato completamente, rimaneva il più grosso punto interrogativo: cosa ne sarebbe stato della skyline di quell’angolo di mondo? Avrebbero ricostruito tutti e 110 i piani e 415 metri di quei due grattacieli? Ovviamente no. Fu una delusione, ma almeno speravo che non avrebbero messo nulla al loro posto.
Con la quasi approvazione del progetto dell’allora Freedom Tower, il mio amore per New York è sostanzialmente morto. Mi sono sentito tradito. Infantilmente, mi ci sento ancora, e l’interesse non è mai davvero tornato. Certo, il progetto dell’epoca era molto più brutto perfino dell’obbrobrio che stanno completando adesso, ma è il fatto in sé che mi ha oltraggiato. Ed è per questo che le mille immagini patriottiche delle Torri Gemelle, le sviolinate dei notiziari, i due fasci di luce nel cielo, oggi, a completamento dei lavori quasi avvenuto, mi urtano tanto. Lo so che per il resto del mondo quei grattacieli sono i simboli di una tragedia, ma tutto ciò che riesco a pensare è: se continuate a vagheggiarle così tanto, perché diamine non le avete ricostruite così com’erano, brutti idioti?

New York alla fine l’ho visitata nel 2005. Sebbene mi sia divertito, non è stata l’esperienza memorabile che immaginavo da piccolo. Ok, la compagnia del Guasto non era delle migliori, ma a prescindere da lui, i momenti che mi sono rimasti più impressi, a parte la vista su Ground Zero, sono state l’acquisto della mia prima fotocamera e lo shopping sfrenato al Virgin Megastore di Times Square. Il Winter Garden e la terrazza panoramica dell’Empire State Building sono stati bei momenti, ma la verità è che ho visitato la città come avrebbe fatto qualsiasi turista, senza viverla o preoccuparmi davvero di scoprirne la magia. Mi sono goduto più Niagara e le città canadesi nel resto del viaggio, se devo essere sincero. La Grande Mela è stata solo una metropoli tentacolare, per molti versi spaventosa, per tanti altri affascinante, rinchiusa in una teca trasparente, lontano da me. Perché un pomeriggio di fine estate di tanti anni prima, la morte per me più dolorosa in un massacro d’importanza storica è stata quella del mio sogno d’infanzia.

Tuesday, 9 September 2014

Wretched Tart

Mi sono reso conto che mi ricordo a malapena di Wretchie: stanotte mi è capitato il suo profilo fra i suggerimenti di Facebook e, aprendo la foto, mi sono accorto che la sua faccia non mi è più familiare. Un viso sconosciuto, qualcuno che potrei aver visto per strada ma niente più. Non sento nulla: né rancore, né nostalgia, né tanto meno mi viene in mente uno dei tantissimi momenti che abbiamo condiviso, se non mi ci concentro. Il che è assurdo, considerando per quanto è stato uno dei miei migliori amici.

Quando ho riaperto il blog, avevo pensato di riempire quell’anno e passa di chiusura raccontando, parallelamente a ciò che mi succedeva, qualche flashback di quel periodo. Il fatto che non abbia postato per i successivi sei mesi ha ovviamente mandato in fumo l’idea; ma credo che quel periodo sia riassumibile in: non sapevo ancora bene cosa fare della mia vita, così ho continuato a fuggire da me stesso. Quale posto migliore per farlo se non Milano, il Paese dei Balocchi che fanno rima con Phinocchi? Così mi sono fatto spesso il week end a Sfrantaland ospite di Wretchie, appena trasferitosi lì e alla rampante scoperta della sua gaitudo; assieme ne abbiamo passate di tutti i colori. Abbiamo condiviso all you can eat dal cinogiappo, discoteche, pub, giri in centro, battute e acidate sulla chiunque, tanta di quella musica… eravamo Filthy Harlot e Wretched Tart. E considerando che a Trieste praticamente andavo in letargo per risvegliarmi solo in quei week end, non riesco a credere che ora quei ricordi siano così sbiaditi. Della prima metà del 2012 ricordo molto meglio l’unico week end che ho trascorso ospite di Jonah (ve lo ricordate, quello di Splinder?), e non solo perché ci siamo dati alle foto tutto il tempo.

È un po’ assurdo pensare che anni di amicizia e mesi di frequentazione intensa siano naufragati per una stupida lotta da galli cedroni per la stessa preda. Unilaterale, oltretutto, visto che l’ho scoperto mesi e mesi dopo e, quando gli buttavo la battuta, Wretchie negava categoricamente. E dire che gli avevo dato via libera, a patto che me lo dicesse chiaramente, però, così mi sarei fatto da parte, visto che la preda in questione non voleva saperne. Tutto ciò è piuttosto ironico, visto che i nostri alter ego puttan pop erano Beyoncé e Rihanna: ce la siamo andata a cercare.
Lì per lì, gli ho serbato tutto il rancore che sono capace di serbare per una spersona a cui voglio molto bene e da cui mi sento tradito: è più forte di me, la prendo male. Non c’era motivo di fare le cose di nascosto e poi prendersela con me perché continuavo a flirtare col tizio in questione senza sapere che uscivano assieme. E anche questo contribuisce a rendere più strano il fatto che ora Wretchie mi sembri un perfetto estraneo e che la sua faccia sia totalmente sfumata via dai ricordi delle scarpinate Borgo-Duomo alle quattro del mattino cantando a squarciagola. E dire che l’ho anche incontrato per combinazione pochi mesi fa: è stato awkward, ma nulla più. Semplicemente, ho dimenticato la sua faccia. Zero.
Mi rattrista perdere così le persone per strada, anche se sono individui che non è bene avere accanto.