Monday 14 October 2019

Joker è un film confuso

Ok, togliamoci subito i disclaimer:
1) A parte quel disastro che è Suicide Squad, non ho visto nessuno dei vecchi film con Joker, né ho mai letto i fumetti o guardato i cartoni animati. Mi pare di aver afferrato in giro per il web che questo film sia almeno in parte una decostruzione / risposta / sovversione del Joker presentato lì, soprattutto quello scritto da Nolan, ma la cosa non m’interessa: valuto il film in sé e per sé.
2) La prova recitativa di Joaquin Phoenix è magistrale; sound e fotografia lo sono altrettanto. Ma questi elementi da soli non fanno un film.
3) Ci saranno spoiler.

Detto questo, Joker è un film confuso.

Credo di essere in minoranza, ma sono uscito dal cinema pensando: meh. ¯\_(ツ)_/¯
Probabilmente ciò non sarebbe successo se non avessero fatto vedere l’ennesima scena della morte dei genitori di Bruce Wayne presentato il film come il fratello serio dei cinecomic, ma nel momento in cui mi proponi un film che vuole essere più complesso del solito guerra = brutta, terrorismo = brutto, avarizia = brutta, eroe = salva la situazione, botte da orbi e qualche esplosione per rendere il tutto spettacolare, devi scegliere con attenzione quale messaggio vuoi veicolare e farlo con chiarezza. Joker questo non lo fa.
Di solito sono il primo a dire che un film non va giudicato in base allo hype o al backlash che genera, ma è pur vero che il discorso che se ne fa online – un film di feroce critica sociale e politica, che mostra finalmente la malattia mentale spoglia degli stereotipi hollywoodiani – rende chiaro sia a cosa Joker mirasse in termni di risposta del pubblico, sia con quanta superficialità e cerchiobottismo abbia affrontato, nella pratica, entrambi gli argomenti.
E no, non basta buttare lì una battuta di dialogo su come “Io non sono qui per fare politica, sono qui per intrattenere” per pararsi il culo e assolvere l’intento autoriale: nel momento in cui usi un tema come cardine della trama del tuo film, la direzione che dai alla storia ti fa prendere una posizione; e se il tema che scegli è sensibile e socialmente rilevante, la tua posizione deve essere chiara.

Prendiamo l’ambivalenza sulla malattia mentale, ad esempio.
Il film ci presenta Arthur Fleck come un individuo con un disturbo mentale che viene progressivamente marginalizzato dalla società: nel quotidiano è vessato anche da perfetti sconosciuti, a livello istituzionale un taglio di fondi lo lascia senza assistenza psichiatrica e farmacologica. Le cose iniziano a precipitare finché, più o meno a metà, il film introduce un tema parallelo: “La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi”.
“Wow”, dico io, spettatore in lotta da anni con la depressione e che sente tutto il peso sociale della propria malattia, “mi sento proprio capito da questo film”.
Da lì in poi, però, Arthur inizia a marciarci, sulla malattia, consapevole del suo degenerare ma incurante delle conseguenze. Il film inquadra questo cambiamento come empowering: Arthur non è più timoroso e costantemente vessato ma, grazie alla “libertà” dalle medicine (lo dice testualmente a una certa) è in grado di farsi valere e rispondere ai torti che subisce. E lo fa ripagando la violenza con altra violenza, fino a che un regolamento di conti estemporaneo non lo rende un idolo delle folle, strappandolo definitivamente alla pateticità della sua anonima vita. Tutto ciò mentre si esplora come fosse stata indirettamente la malattia mentale di sua madre a ridurlo in quello stato.
Qual è, allora, il messaggio sulla malattia mentale? Che è un problema da risolvere? Che è la soluzione a un disagio esistenziale? Va curata partendo da una riforma sociale che fornisca le giuste reti di sicurezza per non lasciare il malato solo, o va abbracciata e alimentata come mezzo di emancipazione personale?
Le contraddizioni continuano anche in come il rapporto dei neurotipici con Arthur è mostrato: bello il messaggio su Gary che si salva perché è l’unico che ha trattato bene Arthur. Peccato solo per Sophie, che è stata cordiale con Arthur una volta, è diventata oggetto della sua ossessione ed è finita ammazzata off-screen.
Quindi? Qual è il messaggio? Prendi esempio, spettatore, sii gentile e la gentilezza ti tornerà indietro? O stai attento, spettatore, basta un sorriso e una battuta fuori posto per finire ucciso?

La confusione è aumentata dall’incertezza nel framing del film: vero che lo stato di Arthur non è imbellettato e finisce spesso e volentieri per diventare un cringefest che rischia di alienare il pubblico, ma è mostrato come protagonista indiscusso. Al punto che tutti gli omicidi che compie on-screen sono in qualche modo “meritati”, è lui che reagisce alla brutalità dei suoi aguzzini, lo spettatore deve tifare per lui. Quello più gratuito, la giovane madre single dell’appartamento accanto che uccide perché non è davvero sua morosa, avviene invece off-screen, sia mai che lo spettatore smetta di tifare. Lascio che sia qualche donna, parte in causa, ad analizzare come il film glissa su un femminicidio.
 
Edit: Todd Phillips giura e spergiura che Sophie non è morta, dicendo di aver girato una scena di lei che vede Arthur in TV, tagliata per non distrarre dal punto di vista di lui. E che comunque “si capisce” dal film; anzi, molte persone a cui ha chiesto l’avrebbero capito perché Arthur ha un codice morale e uccide solo chi gli ha fatto un torto.
Il che peggiora solo la situazione, perché a) chiaramente no, non si capisce, quindi il regista ha sopravvalutato il suo film e fatto una pessima scelta in fase di montaggio, e b) mostra un ulteriore tema buttato dentro ma trattato con superficialità. Con tutte le storie che si sentono di uomini in uno stato mentale molto meno precario di quello di Arthur, che diventano violenti perché percepiscono il rifiuto da parte di una donna proprio come un torto, dare per scontato che questa dinamica non si sia innescata dimostra con quanta poca cura l’intero storyline dello stalking e della relazione immaginaria sia stato concepito.

La questione sociale è, se possibile, sviluppata ancora peggio, e ci vuole ingenuità per interpretarla come messaggio progressista e anti-establishment.
Il problema di Arthur – finché è inquadrato come problema, per lo meno – è di natura sociale: la corruzione politica ed economica, che taglia i fondi alle cure, esaspera la sua situazione personale. Parallelamente, l’intera città vive un disagio crescente col progressivo inasprirsi del divario fra classi ricche e povere. I ricchi fingono di interessarsi, ma sono, alla meglio, ciechi verso la reale situazione, alla peggio disonesti e opportunisti. Il messaggio sembra essere che lo status quo è sbagliato, che il capitalismo rampante sta trasformando tutti in esseri cinici e privi di empatia, che un cambiamento è assolutamente necessario perché la situazione è insostenibile.
Eppure, questo cambiamento si concretizza in forma altamente negativa. La scintilla che fa partire le proteste è l’omicidio di tre yuppie da parte di un pazzo: le classi popolari si lasciano accecare dalla cultura dell’invidia e interpretano quel gesto meschinamente personale come socialmente sovversivo. Da lì si arriva alle rivolte nelle strade con morti indiscriminate.
Ma lo spettatore sa che l’eroe della rivolta è un pluriomicida con problemi mentali: per estensione, tutti quelli che lo seguono – che letteralmente gli si radunano intorno che nemmeno Daenerys in Mhysa, partecipano alla follia. Quindi? Status quo brutto e cattivo, o rivoluzione brutta e cattiva?
Questa parte mi urta particolarmente perché strizza l’occhio senza pudore a un pubblico progressista ma, in realtà, veicola una visione di fondo profondamente conservatrice: è durante le rivolte che abbiamo l’ennesima scena della sparatoria degli Wayne, ed è lì che, lo sappiamo, nasce Batman. I moti rivoluzionari sono una follia, un sogno febbrile, le conseguenze delle azioni di un pazzo, sono il nemico: l’establishment, sotto forma di Batman, arriverà a soffocarle e riportare all’ordine le classi popolari che chiedono più diritti! Questo film è ipocrita quanto Rent, dipinge questo bel quadro di riscatto sociale mentre fa di tutto per dimostrare quanto sia futile, effimero e dannoso, e come lo status quo prevarrà sempre.

Fra l’altro, il film non tenta nemmeno di trovare il giusto mezzo, di mostrare come entrambe le fazioni abbiano torto su alcune cose ma ragione su altre: l’élite non ha mai un momento in cui si rende conto di star sbagliando, le manifestazioni non portano a nulla se non a violenza indiscriminata. È una gara a chi ha più torto, e la mitologia di Batman sottintende il resto, che il sistema, per quanto fallato, vada tutto sommato bene così e tentare di cambiarlo peggiori solo le cose.

In conclusione, quindi, Joker è ben lontano dall’essere il film di spessore a cui si atteggia. È un cinecomic che, nel tentativo di sembrare più serio dei colleghi, si imbarca in una serie di discorsi seri che non ha la chiarezza per affrontare. Ci prova in tutti i modi, a ingannare lo spettatore promettendo di diffondere grandi messaggi importanti, ma ciò lo fa risultare semplicemente pretenzioso e, soprattutto, confuso su quale sia la storia che vuole raccontare.

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