Friday 2 August 2013

Gli hipster di oggi sono gli emo di ieri

Facendo un giro nelle profondità più recondite dei miei favourites di deviantART mi sono imbattuto in un paio di scatti di una fotografa ceca (non nel senso di “non vedente”, ma in quello di “non slovacca”), risalenti nientemeno che al 2007, di cui avevo più o meno dimenticato l’esistenza. Con i titoli di All I Need e All I Have, le foto in questione sono queste:
 
All I Need by ~Ellenoir   All I Have by ~Ellenoir

Ora, basta una rapidissima analisi per notare che c’è tutto ciò che troviamo anche nelle foto che vanno alla grande oggi: l’intelletualizzazione delle piccole banalità quotidiane, il bordino da finta polaroid, il viraggio al giallo vintage (meno acido perché manca il finto cross-processing), e pure un tentativo di renderla finto-analogica, sebbene meno sofisticato di ciò che il CS6 ci permette. Insomma, cambiano i capelli e ci sono le strisce orizzontali al posto dei quadretti da boscaiolo, ma la conclusione la si può raggiungere facilmente: gli hipster di oggi sono gli emo di ieri, né più né meno.

Bene, diciamolo tutti in coro: sai che novità!
Che tutte le sottoculture, anche quelle più “controcorrente”, prima o poi diventino la moda dominante del momento è fisiologico, basti pensare a come, esattamente dieci anni fa, Amy Lee convertì schiere di ragazzini a vestiti neri, braccialetti con le borchie, trucco marcato e lunghi capelli corvini. Da lì a diventare generici metallari col magliettone della band preferita e il codino di capelli unticci per molti il passo è stato breve, mentre un buon ottanta percento degli altri si sono ritrovati con un occhio coperto dal ciuffo nero piastrato nel giro di un tre-quattro anni (vedesi sopra), per poi bleacharsi e cotonarsi i capelli quando le scene queen hanno preso il posto degli emo, e così via, fino agli hipster che vanno tanto di moda oggi. Magari a molti è capitato di saltare una o più fasi, ma il discorso è lo stesso: nell’“alternative mainstream”, ovvero quello che, sebbene meno dell’avvicendarsi di pop e hip-hop/R&B, riceve comunque una certa dose di attenzione dai media, la moda gira né più né meno che nel resto del mondo. La cosa divertente è semplicemente che quelli che seguono la “moda alternativa” sentono un costante bisogno di autogiustificare le proprie scelte, con effetti spesso esilaranti.
Di fatto, stiamo parlando di individui che ascoltano musica non per il semplice piacere di farlo, ma per darsi importanza, per sentirsi acculturati e raccattare opinioni di seconda mano che possono condividere con gli altri rendendosi importanti ai loro occhi. Non appena una sottocultura inizia ad essere troppo diffusa, mettendo in pericolo la loro percepita unicità (e ponendoli di fronte a gente che ne parla davvero con cognizione di causa e può smontare le loro opinioni precostruite), come tanti piccolo Ditto usano Trasformazione e, da un giorno all’altro, si professano appassionati del nuovo genere. Ovviamente, il passato diventa improvvisamente imbarazzante e viene nascosto il più velocemente e accuratamente possibile (ho sentito di gente che ha nascosto cd nell’armadio finché non li ha svenduti alla chetichella su Facebook), perché lungi dal farsi identificare come provenienti da un gruppo di ignoranti mainstream dai nuovi compagni di sottocultura. Si organizzano enormi campagne di pulizia degli ascolti su Last.fm, si parla il peggio possibile delle ex band preferite con i vecchi contatti, dopo di che ci si riempie la bocca di motivi sul perché il nuovo genere di appartenenza sia il migliore di tutti. Motivi il più possibile intellettuali e che hanno a che fare con il disagio sociale che gli altri generi recano all’umanità, con quanto la loro nuova musica sia più pura perché svincolata alle leggi del mercato, e come non si fermi alla sola apparenza ma sia piena di sostanza. Almeno fino a che non inizia ad ascoltarla troppa gente.

A questo giro, i nostri Ditto sono molto fortunati. Del resto, dire di ascoltare pop cantautorale, folkeggiante e a tinte pseudo-indipendenti presenta molti vantaggi. In primo luogo, è un genere che un po’ tutti conoscono, ma a cui nessuno presta davvero attenzione, così che se ne può parlare con ascoltatori che riescono a seguire il discorso almeno a grandi linee, ma che non ne sapranno mai abbastanza da poter smentire, facendo sentire i nostri Ditto enormemente eruditi con zero rischi. Poi ha quell’aura di integrità che solo le produzioni pseudo-indipendenti hanno, un sapore di musica non dominata dalle leggi del mercato – quelle stesse che, per inciso, riempiono Zara e H&M di camicie a quadri, magliette con stampe vintage di musicassette, colori terra e leggings con stampa a triangoli, galassie o patchwork della nonna, ma questi sono dettagli.
Inoltre, è socialmente molto accettabile. Dire di ascoltare Adele o Lagna del Rey è molto più adatto a una cena con parenti e amici di famiglia che non Lady Gaga, M.I.A. o qualche altra sgualdrina pop – per non parlare, peggio ancora, del metal. Insomma, il giusto equilibrio fra l’essere controcorrente e, a tempo stesso, accettabili, fra mantenere la propria identità di “alternativi” e sembrare bravi ragazzi nel senso convenzionale del termine. E poi è un argomento di conversazione meno vasto delle vere cantautrici, quelle che il pop alternativo lo portano avanti sul serio e hanno decenni di discografie alle spalle.

Che dire quindi? Speriamo per i nostri amici Ditto che la loro bolla di beatitudine resti intatta il più a lungo possibile, perché poi saranno dolori. Del resto, cosa resterà loro quando si renderanno conto che ormai l’indie pop-rock non è né più né meno che una moda da discount?
Una sola cosa è certa: se improvvisamente quel genere cacofonico, sovrastrutturato e da poveri ignoranti che è la dubstep verrà riabilitato a unica vera produzione musicale artisticamente degna di nota poiché spezza con il suo imprevedibile dinamismo la monotonia e la convenzionalità del ritmo tutto uguale del pop acustico, e con la sua potenza va al di là dell’intimismo preconfezionato del indie-folk (già immagino le migliori webzine italiane scrivere qualcosa del genere), potrò rivendicare con orgoglio che io la ascoltavo da prima che lo facessero loro.
Peccato che così sarò un ormai demodé hipster.

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