Wednesday 6 April 2011

The Unforgiving – Within Temptation

Ormai da più di una settimana è disponibile in Italia The Unforgiving, il tanto atteso quinto full length dei Within Temptation. Tanto atteso sia dai fan, che speravano in una conferma della validità dei loro beniamini, sia dai detrattori, che li aspettavano al varco per vedere se si sarebbero svenduti alle leggi del mercato dopo il successo del precedente The Heart Of Everything. Anticipato dalle accattivanti notizie di un concept basato su una storia a fumetti, un’orribile copertina che ha destato non poche perplessità, la debole Where Is The Edge? che ha fatto davvero temere il peggio e un singolo di grido come Faster, quest’album il dubbio sulla sua validità l’ha lasciato un po’ fino all’ultimo. E a quanto pare, tolti pochi sfortunati a cui non è piaciuto, ha sorpreso in positivo praticamente tutti, perfino quelli che già in partenza avevano aspettative piuttosto alte.
Da cosa vogliamo partire? Vogliamo partire dai pezzi discotecari, che però non rinnegano la loro parte metal? Vogliamo partire dalle ballad, che riescono ad essere intense ed emozionanti senza scadere nel melenso e zuccheroso? Vogliamo partire dai pezzi pesanti, tanto che non se ne sono visti di così metal in nessuno degli album precedenti?

Within Temptation - The unforgivably ugly front cover

Partiamo piuttosto dalla domanda più immediata: la tanto chiacchierata “svolta elettronica” c’è stata o no?
In una parola: no. In realtà, è una cosa che è stata molto ingigantita da chi leggeva le notizie sull’album. La band, di per sé, ha solo parlato di attingere al sound anni 80, e questo l’ha fatto. Più che di una svolta, sarebbe corretto parlare di un’evoluzione, caratteristica costante della carriera dei Within Temptation, avvenuta stavolta in direzione elettronica tramite varie contaminazioni su un sound che essenzialmente resta metal e diventa, anzi, perfino più guitar-oriented che in passato (alla faccia di quelli che criticavano il presunto alleggerimento del sound). I Within Temptation ci sono e sono perfettamente riconoscibili, e ripercorrendo la loro discografia all’indietro album per album si arriva al loro debut Enter in maniera naturale e senza grossi scossoni.
Fatta questa doverosa premessa, prima di partire con un’analisi track by track vediamo un po’ l’album in generale. Quali sono i suoi punti deboli? Ahem... uh... la copertina è davvero brutta. E ah, l’intro è inutile e c’è un filler.
Pregi? Un songwriting più maturo e solido che negli album precedenti, con pochi bassi a fronte di moltissimi alti. Un sound che, come notato sopra, porta una buona ventata di innovazione (alla band come al genere di provenienza) senza rinnegare il percorso fatto fin’ora, in un perfetto equilibrio fra novità e tradizione. Le canzoni hanno quasi tutte una lunghezza fra i quattro e i cinque mintui e mezzo, abbastanza da lasciare soddisfatti ma senza diventare prolisse ed esageratamente lunghe. La varietà: pur essendo un album fondamentalmente orecchiabile, lo è con molta classe, ed offre una vasta gamma di arrangiamenti, mood, strumenti e sfumature che evitano di scadere nel ripetitivo o prevedibile. Infine, uno dei suoi punti di maggiore forza è sostanzialmente lo stesso di Lady Gaga: giocare con le citazioni senza mai scopiazzare palesemente; il songwriting di quest’album è abbastanza furbo da dare qualche sensazione di deja-vu qua e là, sia proprio che di altre band, senza far gridare quasi mai “al flashback!”, giocando su quella familiarità che rende il pezzo immediato ma non una copia di qualcos’altro.
E ora andiamo con la tracklist:

1. Why Not Me?
2. Shot In The Dark
3. In The Middle Of The Night
4. Faster
5. Fire And Ice
6. Iron
7. Where Is The Edge?
8. Sinéad
9. Lost
10. Murder
11. A Demon’s Fate
12. Stairway To The Skies

La prima traccia è un’intro e non va oltre ciò. Ha una sua ragione a fini narrativi, lo capisco, ma in termini musicali è molto più inutile di molte altre intro. Ma se non altro è breve e cede subito il passo all’opener, Shot In The Dark. Questa canzone, orecchiabile e immediata, ci anticipa già gli elementi che caratterizzando l’album: una Sharon che raggiunge livelli di espressività mai toccati prima, mantenendosi principalmente sul suo registro medio-basso, le tanto decantate contaminazioni elettroniche, un tappeto di archi discreto che completa il sound piuttosto che appesantirlo (come troppo spesso accade nel genere), e chitarre sempre più prominenti. Con una strofa efficace e un ritornello tutt’altro che banale, rassicura da subito sul tenore compositivo dell’album.
La successiva In The Middle Of The Night si configura subito come uno dei momenti più heavy non solo dell’album, ma dell’intera carriera della band: oltre ad essere, infatti, la canzone più veloce mai suonata dai Within Temptation, le sue chitarre sono onnipresenti, sottilmente enfatizzate da una parte sinfonica appena accennata ma efficace. Il riff che tiene in piedi il brano è una sottilissima citazione di una canzone che i fan di Sharon dovrebbero aver ben presente, ma a sentire meglio è tutt’altro che uguale, ed è giusto il primo esempio di come il deja-vu e l’ammiccamento non si trasformino mai in scopiazzatura gratuita e perdita dell’identità.
La quarta traccia è Faster, e ho già avuto modo di lodarla appena uscita. Da aggiungere c’e solo che, nonostante l’abbia ascoltata all’ossessione per più di un mese intero prima dell’uscita dell’album, ancora non mi ha stancato. Non è un singolo usa e getta e trova il suo giusto spazio nel contesto dell’album: anche paragonata agli episodi migliori, il suo mix di sintetizzatore smaccatamente Anni Ottanta, chitarre variegate e batteria martellante si fa notare.
Fire And Ice è la prima ballata dell’album. Per inciso, assegno una personalissima stellina di merito alla band per aver tirato fuori solo power ballad (ad eccezione di una delle bonus track) e non essersi mai affidati totalmente a un acustico che non sempre sa tenere banco su un album fortemente guitar-oriented. Ancora una volta è infatti il mix di elementi eterogenei, ovvero i violini per la prima volta protagonisti (specie all’inizio) accompagnati da una parte metallica lenta ma che non perde grinta, a rivelarsi vincente nel sostenere una Sharon tanto intensa da stringere il cuore su una melodia tutt’altro che scontata (e tutti sappiamo quanto le ballate possano rischiare di esserlo).
Terminato il momento lento e sentimentale, abbiamo una delle highlights di questo album: Iron, che come il titolo stesso suggerisce è un’esplosione di metallo. Veloce, aggressiva, con una batteria martellante, chitarre praticamente onnipresenti sostenute da una tempesta di archi e ottoni, momenti epici e cinematografici che, di nuovo, non scadono nei terribili abissi di scontatezza che il Symphonic sa raggiungere, e con un ritornello ossessionante, è semplicemente La Canzone Live Definitiva dei Within Temptation. Forza, alzi la mano chi non si è immaginato già saltante e headbangante davanti a palco a ottobre sin dalle prime volte che la ascoltava. Ci vuole una forza di volontà notevole per non metterla in repeat e proseguire con la seconda metà del disco.
La traccia successiva, Where Is The Edge?, è quella che ha fatto temere il peggio un po’ a tutti. Buttata lì così, random, come prima canzone del nuovo lavoro, non significava nulla se non che nel disco ci sarebbe stato (almeno) un filler. Ascoltandola nel contesto dell’album, invece, acquisisce una sua ragione d’esistere: dopo un pezzo come Iron, mettere una canzone impegnativa sarebbe stato controproducente, difficilmente qualcuno se la sarebbe filata. Un filler è in questo caso giustificato, così abbiamo tutto il tempo per riprenderci dalla magnificenza della traccia precedente (e sono quasi tentato di credere che quei furbacchioni di Sharon & co. l’abbiano sbattuta in rete per prima proprio perché così l’avremmo presa in antipatia per poi rivalutarla nel suo contesto, cosa che è avvenuta... a patto che non la suonino live). Menzione positiva, comunque, per il tappeto elettronico, la strofa vivace e la parte strumentale del bridge, che rimediano a un ritornello fiacco e ad una struttura generale che è un’autocitazione di momenti poco felici del passato (Final Destination e It’s The Fear, i filler dei filler).
Qualcuno pensava che Faster fosse il singolo perfetto? Ecco arrivare Sinéad a mettere un lecito dubbio: orecchiabile come molte canzoni pop si sognano solo essere, ballabile e sculettabile come i migliori episodi di Assembly dei compianti Theatre of Tragedy, mixa perfettamente violini frenetici con synth anni 80 e chitarre, stavolta, poco prominenti per assicurare figuracce quando ascoltata per strada, visto che è facile dimenticarsi di non essere in pista e che sculettare mentre si aspetta il semaforo non è una buona idea. E il metal, e la trVeness? Chissenefrega, non valgono un solo secondo di questi quattro minuti e mezzo di gaiezza!
La seconda ballad del disco, Lost, si presenta da subito come sostanzialmente guitar-oriented: acustica sulla strofa, elettrica sul ritornello e sul bridge, la chitarra non ci abbandona mai. Sebbene nella struttura presenti alcune similarità con All I Need, mantiene un’identità assolutamente propria e non scade nell’autocitazionismo. È comunque l’emotività il piatto forte di questa canzone, grazie ad una Sharon ancora più espressiva che in Fire And Ice (su
Help me, I'm buried alive! fa davvero venire la pelle doca) sostenuta (almeno parrebbe) da una voce maschile in sottofondo. I brividi sono assicurati per tutta la durata del pezzo.
Murder, la canzone successiva, è semplicemente strana. A molti non è piaciuta, ad altri c’è voluto qualche tempo per apprezzarla. Si tratta di un pezzo tutt’altro che immediato, che combina elementi del passato, come un’orchestrazione notevolmente più prominente del resto del disco, con altri nuovi, ovvero Sharon che viaggia su note più basse del suo solito. Non è brutta, ma fa fatica a distinguersi per parecchi ascolti, quindi si consiglia pazienza.
La penutlima traccia, A Demon’s Fate, riassumere tutti gli elementi del disco come l’opener: a metà fra il magnificamente ballabile e il pesantemente metal, è caratterizzata da un ritmo trascinante (nel vero senso della parola), un ritornello martellante e immediato, un’alternanza di elementi elettronici e orchstrali, un notevole assolo di chitarra e una Sharon davvero imbestialita, che sfrutta il lato più
cattivo” dell’espressività della sua voce in un modo tale da fare invidia a qualsiasi Grace o Caged del passato. È un’altra canzone che grida repeat a tutto spiano, che contribuisce a chiudere in assoluta bellezza l’album.
La prima cosa da dire sulla ballata conclusiva, Stairway To The Skies, è il suo essere fortemente penalizzata dalla tracklist. Messa alla fine di un album notevole, dopo una traccia importante come la precedente, è purtroppo facile non darle l’attenzione che merita. Ed invece, si tratta di uno dei pezzi più emozionanti e intensi dell’intera discografia della band, che riesce a gestire il suo carico emotivo senza risultare stucchevole, ridondante o melodrammarica. Musicalmente, è l’opposto complementare di A Demon’s Fate, combinando a sua volta tutti gli elementi dell’album ma esaltando stavolta quelli melodici e orchestrali. Ancora una volta, però, è la performance vocale a garantirne il completo successo, con Sharon che canta direttamente al cuore, non saprei definirla altrimenti.

Una menzione va anche alle tre bonus track. I Within Temptation hanno sempre tirato fuori delle bonus track brillanti, che sono state tenute fuori non tanto per il fatto di non essere sufficientemente buone, quanto perché sarebbero state superflue ai fini dell’economia dell’album. Nella fattispecie, stavolta abbiamo:
I Don’t Wanna, altro pezzo ritmato e ballabile con parte elettronica e atmosfere Anni 80 in rilievo, molto bella di per sé, ma che da una parte è troppo imparentata con Shot In The Dark, e dall’altra non ha il mordente di una Sinéad o una Faster per fare la sua bella figura all’interno dell’album. Certo, avrebbe potuto benissimo prendere il posto di Where Is The Edge?, ma venire dopo Iron l’avrebbe ulteriormente affossata.
Empty Eyes credo sia la canzone del lotto con cui ho meno feeling, tolte l’intro e il pluricitato filler: non è brutta, ha un ritornello simpatico e un ritmo accattivante, semplicemente non l’ho capita e non mi va di passare molto tempo a cercare di farlo, forse perché ha qualcosa che mi ricorda fastidiosamente episodi come What Have You Done?, che non amo particolarmente.
The Last Dance, la quarta ballad, è l’unica canzone completamente priva di chitarre del lotto. Mi pento e mi dolgo di averla snobbata all’inizio, etichettandola come Sounds Of Freedom versione 2.0, perché nel giro di pochi ascolti sono arrivato ad amarla. Nonostante somigli all’outtake del precedente album (ed entrambe facciano parte dello stesso ceppo inaugurato da Towards The End), mantiene una sua individualità distinguendosi dalle compagne per le sue sfumature emotive nettamente diverse, più intime e profonde, di malinconia da addio mista a speranza per il futuro. Il testo è ciò che me l’ha fatta apprezzare, poiché pur essendo semplice, riesce a comunicare le emozioni già enfatizzate dalla musica con estrema efficacia, rendendola una canzone che, per quanto poco attinente all’album in quanto a sound, brilla intensamente come b-side.

In conclusione, quest’album è un 53 minuti e mezzo di beatitudine per le orecchie, adatto a qualsiasi umore, tempo atmosferico, attività da svolgere mentre si ascolta (ci sono anche pezzi su cui volendo un po’ di sesso non ci starebbe male) e genere musicale preferito della settimana. I Within Temptation si sono confermati una realtà solida e perfettamente in grado di abbattere i pregiudizi che fin troppi, nel genere, hanno spesso riservato loro, prendendo in castagna stavolta pubblicamente colleghi notoriamente più blasonati (ma dal dubbio merito), sfatando il mito del sound che si alleggerisce (tendenza che si era comunque già invertita subito dopo The Silent Force), il sospetto della band che si svende totalmente al commerciale (l’hanno fatto con una classe tale da non rischiare di deludere i fan affezionati), e altre amenità simili. Ci sarà ovviamente chi storcerà il naso di fronte alle nuove influenze, ma i grossi e invalidanti limiti di una buona parte del pubblico metal non sono una novità già dai tempi della svolta synthpop dei Theatre of Tragedy. E poi ci sono quelli che erano partiti prevenuti e hanno dovuto rivalutare l’album a denti stretti: l’ultimo pensiero va a loro, ringraziandoli per aver reso ancora più dolce questa piccola vittoria dei fan di una band eccezionale che è tornata più grintosa che mai.

4 comments:

  1. D'accordo quasi con tutto, tranne cose sporadiche che immagino siano questioni di gusto. Quoto in pieno l'impressione su Help me, I'm buried alive, assolutamente uno dei momenti migliori dell'album.



    Sulle Bonus non mi sono fatto ancora un'idea precisa, ma da quel che ho sentito, la penso completamente al contrario o.o Empty eyes è quella che mi ha colpito un pò di più, a parte la fastidiosa somiglianza tra il ritornello e Happy Ending, di Mika



    Per il resto ehi, è ancora impossibile smetterla di ascoltarlo, sul serio



    (e mi sa che il prossimo sarà proprio Assembly è.è)

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  2. Ma sì, alla fine è una questione di gusti anche per le bonus.



    Comunque sì, Assembly lo approvo! *-* Anche se ti avviso che c'è Liv Kristine. Ma poi con Forever Is The World e/o Storm come è andata? :0

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  3. Dimenticato completamente °-° sono i prossimi che scarico. E mi sa ceh Assemly perde già in partenza. No senti quella no. (ok ci provo)



    Tu, Judas?

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  4. Vergogna! Come ci si può dimenticare dei Theatre of Tragedy? *scudisc, scudisc*

    Io cosa, sir? *faccina innocente*

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