Thursday 27 October 2011

Hurts live @ Alcatraz, Milan

Credo di poterlo dire senza problemi: adesso sì che posso morire felice. Dopo il concerto degli Hurts di ieri sera credo di essere davvero arrivato al nirvana, e ora sono in un tale stato di beatitudine che se mi cadesse un meteorite in testa non mi lamenterei nemmeno per la sfortuna cosmica.
Quelli che hanno seguito da vicino le mie vicende artistiche degli ultimi mesi avranno certamente notato che questo concerto l’ho aspettato con molta trepidazione e mi ci sono preparato a dovere: rimasto vedovo dei Theatre of Tragedy, infatti, senza nemmeno accorgermene mi sono totalmente innamorato di questo duo, eleggendoli a fonte d’ispirazione primaria, tanto da ritrovarmi in breve tempo con un numero sufficiente di foto da poterci stampare un book. Detto fatto, ecco che Inspiration Hurts, il mio primo photobook in assoluto, ha visto la luce, composto dalle undici foto a tema che sono riuscito a scattare prima della fatidica data. Aggiungendo poi il fatto che Theo Hutchcraft è uno dei miei sogni erotici ricorrenti, nonché la qualità della proposta musicale dei nostri, non c’è da meravigliarsi se ho cominciato a dare di matto con largo anticipo, per poi partire letteralmente per la tangente quando il gran giorno è arrivato.

Stavolta, niente incidenti onirici che mi hanno salvato per il rotto della cuffia dal perdere il treno: per evitare qualsiasi problema sono infatti arrivato a Milano il giorno prima, gentilmente ospitato da Daniela, e ho trascorso la mattinata in giro per Corso Buenos Aires con Deborah Luna, fra vetrine, ristorante cinese e l’immancabile Grom. Il progetto originale prevedeva di piantarmi davanti all’Alcatraz dalla mattina, elegantemente vestito con la mia giacca in velluto blu di H&M e la sciarpa damascata al collo, abbinate a jeans neri e alle mie scarpe eleganti nuove, ma dopo aver programmato anche l’uscita con Deborah ho deciso di rinviare l’accampamento a subito dopo pranzo; tuttavia, il giro di vetrine mi ha tentato troppo e ho ritardato fino a poco dopo le tre, quando, armato di photobook, booklet di Happiness e cardsleeve dei singoli, mi sono diretto all’Alcatraz, pronto a fare le mie quattro ore di fila prima dell’apertura dei cancelli. Inutile dire che sono rimasto alquanto sorpreso (ed infastidito) nel trovare già una coda chilometrica, dato che, facendo gli Hurts musica di classe, non mi aspettavo che avessero tanto pubblico in Italia. Alla fine, mi sono semplicemente rassegnato alla mia sorte e mi sono messo in fila, inizialmente con Deborah che mi faceva compagnia; quando poi lei è andata via, mi sono dedicato all’attività primaria di quel pomeriggio, ovvero la mia personale scalata al successo alle prime file. Così, mentre analizzavo il variegato campionario di umanità che gli Hurts sono stati capaci di mettere assieme - altri Goth come me o ex tali, ragazzine di buona famiglia, qualche tamarro, gli ormai immancabili hipster, altra gente orribilmente sciatta che avrebbe fatto rischiare il collasso a Theo, fino ad arrivare a tre ragazze che facevano il cosplay delle ballerine del video di Wonderful Life - compivo continuamente passetti di mezzo centimetro, approfittando di chiunque fosse così ingenuo da voltarmi la schiena per infilare uno dei miei piedini eleganti nel primo spazio libero e guadagnare così, con molta nonchalance, posizioni su posizioni. Tutto questo finché non è arrivato un pulmino con i vetri oscurati: lì si è scatenata un’ondata di fangirlismo (ingiustificato, perché non erano Theo e Adam), di cui ho prontamente approfittato per sgusciare a faccia tosta fino a poche persone dalla porta dell’Alcatraz. Il pià era fatto, non restava che aspettare l’apertura dei cancelli alle sette per approfittare di disordine, gente che andava al bagno, al guardaroba e a bere, varie, eventuali e variabili per guadagnarmi un posto dignitiso. E così è puntualmente stato, tant’è che senza particolari sforzi sono riuscito ad arrivare in seconda fila, leggermente spostato a destra rispetto al centro. Giro di sms di trionfo, chiacchiere con le ragazze davanti a me, spogliarello per rivelare l’outfit da concerto (camicia bianca e bretelle), ed è iniziata la paziente attesa per la performance.

Il gruppo spalla, tali The Heartbreaks, era un quartetto di hipster dal look piuttosto discutibile (a partire dal cespuglio in testa al cantante), ma dalla proposta musicale più che accettabile, un rock orecchiabile e accattivante accompagnato da una discreta presenza scenica, per cui non sono stati una tragedia. Certo, pensare che in passato gli Hurts avessero avuto come spalla Clare Maguire non ha aiutato molto, ma data la lunga esperienza di supporters veramente discutibili che ho alle spalle (qualcuno ha nominato i Pythia e gli Amberian Dawn?) non ho avuto di che lamentarmi (ad eccezione dei calzini color salmone del cantante). Terminato il loro numero, i quattro ragazzi hanno salutato e il palco è stato celermente (ma non troppo) sbaraccato ed allestito per gli Hurts: sfondo a finestroni, batteria dietro a sinistra, sintetizzatore sulla destra, postazione per la chitarra più avanti a sinistra, allestimento di violini, sassofono, violoncello e arpa sulla destra (quest’ultima combinazione mi ha quasi fatto partire l’epistassi, dato l’amore che nutro verso questi strumenti). E davanti a tutto, accanto ai due ventilatori, il synth con supporto trasparente e rose bianche di Adam e l’asta (del microfono) di Theo.

Hurts live @ Alcatraz, Milan

Con un leggero ritardo sulla scaletta, finalmente le luci si sono spente, si sono accesi i ventilatori, è partita l’intro, Adam e Theo sono saliti sul palco ed è iniziata la magia.

1. Silver Lining
2. Wonderful Life
3. Happiness
4. Blood, Tears & Gold
5. Evelyn
6. Sunday
7. Gloomy Sunday
8. Verona
9. Mother Nature
10. Unspoken
11. Devotion
12. The Water / Confide in Me
13. Affair
14. Illuminated
15. Stay

16. The Water
17. Better Than Love

Senza girarci tanto intorno, è stato il miglior concerto a cui abbia assistito subito dopo i Theatre of Tragedy a Stavanger (il che, in soldoni, significa la miglior performance che chiunque non sia i Theatre of Tragedy mi potesse dare). Fra i giochi di luce abilmente calibrati, le proiezioni sullo sfondo presenti ma mai distraenti, le coreografie delle ballerine, un uso parsimonioso delle basi preregistrate grazie anche al quartetto d’archi con seconde voci dal vivo (a differenza di certi multimilionari di nostra conoscenza, ed ogni riferimento a rAmynescence e Naituiss è puramente casuale), una presenza scenica a dir poco iconica di Theo e una setlist magistrale che è andata a toccare non solo l’intero album ma anche tutte le bonus track originali e una delle cover note (con due piccole sorprese), si è potuta benissimo perdonare l’acustica non propriamente perfetta (d’altro canto è pur sempre l’Alcatraz, cosa si può pretendere?). La resa di molte canzoni si è dimostrata addirittura migliore che su disco (Blood, Tears & Gold, Stay e Sunday in testa), e più o meno tutte hanno riservato sorprese, variazioni ed abbellimenti che me le hanno fatte riscoprire anche dopo più di quaranta ascolti ossessivo-compulsivi a testa.
L’opener Silver Lining, preceduta dall’intro su cui si muovevano due figure incappucciate con bandiere nere, ha saturato immediatamente l’atmosfera, scaldando il pubblico che si è messo a cantare appresso a Theo senza esitazioni, e presentandoci sia i nostri, sia la band di supporto subito in perfetta forma, carichi e impeccabili nella poshness dei loro abiti; lodevole il pattern della batteria sul ritornello che, sebbene meno ancheggiabile di quello dell’album, ha infuso un’incredibile energia al brano, specie sul climax. A questo proposito, inutile dire che le mie sinapsi hanno avuto il primo collasso quando sono partiti i cori del finale, dato l’amore viscerale che nutro per la canzone in generale e per quella parte in particolare, ed è stato un piacere vedere che il resto del concerto si è mantenuto sulla stessa linea. Wonderful Life ha infatti fatto esplodere il pubblico (ovvio, è uno dei singoli più noti), con tanto di ballerine che danzavano a lato palco riprodotte dalle silhouette proiettate sullo sfondo (e Cristo, voglio imparare quella coreografia!) e assolo di sassofono sul bridge.
Happiness, la terza canzone, ha visto Theo interagire ampiamente col pubblico, dirigendo i coretti di “happiness!” sulle strofe, supportate da una batteria quasi martellante che ha dato un tocco notevolmente più rock al brano. Dopo il momento up-tempo, Blood, Tears & Gold ha riportato un momento di calma con una graziosa nevicata proiettata sullo sfondo, facendosi apprezzare e, al tempo stesso, spianando la strada a uno dei pezzi da novanta del concerto. Ogni cosa in Evelyn rappresenta infatti uno dei climax emotivi del concerto (a prescindere dal fatto che è una delle mie canzoni preferite in assoluto), dalla sofferta interpretazione di Theo alla foga con cui Adam, momentaneamente abbandonato il synth, graffia le corde della chitarra (e i due ci hanno regalato anche un tête-à-tête yaoieggiante, en passant). Trattandosi di una canzone che entra sotto la pelle e fa male, non c’è da sorprendersi se Theo finisce puntualmente per massacrare l’asta del microfono, cosa che ha ovviamente fatto anche davanti ai nostri occhi; menzione particolare per l’arpa, che ha impreziosito i momenti più calmi ed il finale della canzone mandandomi definitivamente in orbita.
Passata la tempesta, i nostri ci hanno portati tutti a saltare (o, nel mio caso, a ballare) con l’energica Sunday; come accennato, dal vivo questa canzone ha una resa esponenzialmente migliore che sull’album, e si è fatta apprezzare tantissimo al naturale nonostante personalmente abbia sviluppato nel tempo una forte predilezione per il Glam As You Radio Mix. Il pubblico ha risposto calorosamente scatenandosi, e non avrebbe potuto essere diversamente, considerando la carica di energia del brano. Non sorprende, dunque, che per calmare le acque i nostri si siano concessi un piccolo momento di riposo su Gloomy Sunday, uno stacchetto strumentale che vede protagoniste le signorine agli archi e due ballerine con tutù nero e nastri rossi (e un trucco fortemente reminescente di Black Swan) che hanno eseguito una deliziosa coreografia dal sapore clasicheggiante. Ed il mood è rimasto sul classico andante mentre il pianoforte introduceva la placida Verona, inevitabilmente accolta con entusiasmo dal pubblico italiano (specie dopo che Theo ha annunciato che il progetto Hurts è nato durante una vacanza in quella città), e i violini avvolgevano la bellissima ed intensa Mother Nature, che ha guadagnato numerosissimi punti grazie al quartetto d’archi dal vivo (band symphonic, prendete nota).
A questo punto, Theo ha annunciato la successiva traccia, la prima composta come “Hurts”, ovvero Unspoken, che ha visto nuovamente il bel cantante alle prese con il pubblico mentre dirigevao qualche coretto; la successiva Devotion è stata ovviamente cantata interamente da Theo, incluse le parti della Zia Kylie
, senza che per questo il pathos ne risentisse (anzi, con tutto l’ammoreh per la Zia, forse ci ha anche guadagnato, sebbene non mi sarebbe dispiaciuto se Theo avesse qualche sussurro sexy à la Kylie). E sempre per rimanere in casa Minogue, le nostre fanciulle hanno eseguito una bellissima versione strumentale di The Water come intro per la cover di Confide In Me; rispetto alla versione semiacustica pubblicata come b-side del singolo di Stay, la canzone ha acquistato sul palco una vita tutta nuova, sostenuta e resa più intensa da chitarra e batteria, con un ritmo bello ballabile che ha invogliato ad ancheggiare un po’ stile Zia Kylie.
A questo punto, è arrivata una piccola chicca totalmente inaspettata, ovvero una bellissima e praticamente inedita versione acustica di Affair che ha visto come unici protagonisti Theo al microfono e Adam alla chitarra e ha dato i brividi al pubblico. Considerando che hanno iniziato a suonarla dal vivo relativamente da poco (setlist.fm sostiene che l’hanno suonata solo una decina di volte), la sorpresa è stata decisamente gradita sia dai fan digiuni di video live del duo, sia dagli incalliti frequentatori di YouTube. Quale modo migliore, dunque, di spianare la strada a quello che, almeno per me personalmente, è stato il massimo picco emotivo della serata? Pensavo che dopo aver resistito a Evelyn sarei stato a posto per tutto il live, e invece le lacrime sono arrivate su Illuminated, intensa come poche altre cose al mondo; la partecipazione del pubblico è stata nuovamente enorme, specie nei momenti in cui Theo dirigeva il coro (un po’ a convenienza, direi, visto che ci ha fatti cantare sulle parti più alte). Date le premesse, è stato sorprendente che l’ultima canzone della serata non sia passata in cavalleria a causa dell’afterglow della precedente; e invece, Stay è stata estremamente coinvolgente, anche lei con una resa notevolmente migliore rispetto al cd, e con un Theo più che visibilmente coinvolto nel cantare e interagire col pubblico, specie chiedendoci di cantare gli “stay” del ritornello. Inutile dire che quando lui e Adam hanno abbandonato il palco il pubblico non voleva saperne di lasciarli andare, e sono così partiti i coretti per riaverli indietro. Anche perché di lasciarli sbaraccare senza aver suonato Better Than Love non se ne parlava nemmeno, ben chiaro.
Quando finalmente i nostri sono tornati sul palco, era quella che ci aspettavamo; quale sorpresa, quindi, nel sentire The Water, stavolta intera, cantata da un Theo visibilmente commosso e col pianoforte che accompagnava gli archi (una delle violiniste ha anche riprodotto quel delizioso stridio di corde che si sente a metà della seconda strofa. Finita la bella ballata, è arrivato quindi il momento di ballare (e voglio dire, ballare) con Better Than Love, degna conclusione della serata. Introdotta da un pulsare di grancassa e un loop di percussioni elettroniche, ha travolto il pubblico con il suo ritmo irresistibile e la sua energia, con l’ovvia conseguenza che ho sculettato come una spogliarellista (cit. Stefano). Anche questa canzone ha riservato una sorpresa, dato che è risultata leggermente più lunga verso la fine (ha praticamente ripreso la versione dei Daggers, ma con il verso in più che si sente nel Freemason Mix), e con la sua endovena di elettronica ha posto fine al concerto.
Tirando le somme, a parte i sopraccitati problemini audio dipendenti dalla notoria pessima acustica del locale, non ci sono state vistose pecche. L’osservato speciale si è comportato magnificamente (alcuni live un tantino vecchiotti che avevano sentito mi avevano fatto inarcare le sopracciglia a più riprese), con una performance vocale magari non impeccabile ma sicuramente d’effetto, senza che le imprecisioni pregiudicassero l’espressività, come è giusto che sia (d
altro canto, che te ne fai della tecnica impeccabile e dei megavibrati se trasmetti meno emozioni di un frullatore che gira a vuoto?). La sua presenza scenica è stata davvero iconica, Theo ha saputo tenere perfettamente il pubblico sia quando interagiva che quando si occupava di cantare e muovere le, mmmh, mani guantate, spaccare le aste dei microfoni, yaoieggiare con Adam (troppo poco, purtroppo) e tutto il resto. Fra l’altro, non ho potuto fare a meno di notare che dal vivo sul palco è molto più virile di quanto appaia in foto e nei video, elemento che, mmmh, ci piace.
L’impianto scenografico ha fatto la sua parte senza mai distrarre l’attenzione dal piatto forte, amalgamando armoniosamente i vari elementi (luci, scenografia, ballerine) in modo da dare ad ogni cosa il giusto spazio. Come scritto sopra, la setlist è stata assolutamente lodevole e completa, mancavano all’appello solo All I Want For Christmas Is New Year’s Day (che sarebbe stata atrocemente fuori stagione), la cover di Live Like Horses (che ha fatto bene a restarsene dove stava), quella di Once (che, chissà, magari con tutta la band ci avrebbe guadagnato come Confide In Me) e quella di Jeanny (per niente indispensabile). Un piccolo rimpianto è che durante il concerto Theo lanciava rose bianche sul pubblico e non ne ha mai lanciata una nella mia direzione, ma forse è un bene, dato che mi sarei accapigliato con chiunque pur di acciuffarla. Insomma, pace.

A concerto concluso, i soliti, simpatici individui dell’Alcatraz ci hanno dato giusto il tempo di evitare la disidratazione e dare uno sguardino al banco del merchandising (dove ho comprato un poster dei due bei fanciulli) prima di sbatterci fuori come al solito alla velocità della luce. A quel punto, i programmi della serata prevedevano rimanere inchiodati lì ad aspettare che i ragazzi uscissero per assalirli (nel mio caso la cosa era abbastanza tassativa, dato che dovevo dare loro il regalo), anche a costo di aspettare anche fino alle due di notte come ci prospettavano gli addetti del locale (e noi ci abbiamo creduto, seeeeh). È stato a questo punto che ho avuto a che fare per la prima volta con due ostacoli che, nel rapporto con gli artisti, non avevo mai affrontato prima: una folla molto numerosa e le groupie. Essendo abituato ad andare a vedere band che, in media, si filano dai quattro ai dieci gatti (undici se gira bene), tanto da finire a sbevazzare birra nel pub accanto, chiacchierare davnti al tourbus o chattare su Facebook con la cantante (come con i Theatre of Tragedy), farmi dedicare le canzoni perché mi sono fatto notare prima del concerto per quanto sono un ammoreh (come con i The Gathering) o improvvisare photoshoot tramite la fidanzata del bassista (come con gli Autumn), ritrovarmi ad essere davvero un viso fra i tanti era una cosa che non sapevo bene come gestire. Con i Nightwish e i Within Temptation semplicemente non avevo urgenza di affrontare la cosa, mentre qui il discorso era diverso. Così, per ritagliarmi almeno un po’ di vantaggio, mi sono fatto strada fino ad appostarmi subito accanto all’uscita, pronto a fiondarmi su chiunque uscisse. Per le groupie, beh, c’era poco da fare: hanno misteriosamente fatto breccia nel cuore dei buttafuori grazie a... mmmh... al loro bel sorriso, così sono entrate a farsi i loro comodi, ma tant’è, evidentemente hanno dato mostra di particolari meriti (ho mica sentito qualcuno cantare Government Hooker?) ... (sì, la mia è tutta invidia, lo ammetto; le tette non tornano utili solo agli esami di Economia degli Scambi, a quanto pare). Fatto sta che, sgambettate via le groupie sui tacchi su cui non sapevano camminare (gnè!), passati avanti e indietro i quattro hipster malvestiti (che hanno tuttavia rimediato un po’ di ammoreh dai fan), uscite le violiniste, il chitarrista, il batterista, il tastierista, arrivate le pizze, passata gente varia ed eventuale avanti e indietro, e sfollata almeno un minimo la gente, ecco intorno all’una di notte i nostri due figoni uscire dal locale. In realtà, da brava fangirl io puntavo a Theo (non si era capito?), ma dato che si stava lanciando sul tourbus praticamente con la rincorsa, ho deciso che l’urgenza della missione aveva la precedenza sull’ormone e ho scelto la strada di minor resistenza, fiondandomi su Adam come una faina e fermandolo col mio pacchetto in mano. A quel punto, la scena è stata tragicomica.
Adam!”, lo chiamo io, sgomitandogli vicino ed esibendo un sorriso con occhi luccicanti. “You got a second? I made a present for you and Theo.
Lui mi guarda con sospetto. “What is it?”, e anche la voce è piuttosto sospettosa.
Rabbrividisco sotto la sua occhiata torva, ma non mi perdo d’animo. “It is a... a photobook. A book of photos I have taken, which are inspired by your songs.
Lui batte le palpebre, realizza la cosa e BAM!, si illumina di colpo, viso e voce. “Oh. Wow! That’s amazing! Really! Thank you so much!
Interdetto da tanto entusiasmo così improvviso, allargo il sorriso come un deficiente e me lo lascio quasi scappare, prima di realizzare che: “You’re welcome, it’s... well... oh, and by the way, have you got the time for a couple of autographs?
Tiro fuori l’armamentario, lui mi chiede se ho la penna, prendo il pennarello argentato, gli dico dove voglio le firme, un paio di prove tecniche per far uscire l
inchiostro ed è fatta. A quel punto tento di farmi largo verso il tourbus, dove Theo sta facendo la corsa ad ostacoli, ma lo manco di mezzo secondo prima che salga. L’idea era di spalmargli almeno il booklet di Happiness in faccia e approfittarne per accennare al regalo, ma dato che il book era in doppia copia ho fatto affidamento all’ovvietà dell’ovvio e al fatto che difficilmente ad Adam sarebbe interessato tenersene due. Missione compiuta, ultima metropolitana persa, ritorno a casa a pedibus col Google Maps dell’iPhone di una delle ragazze conosciute lì, e finalmente collasso indiscriminato sul letto dopo aver spazzolato metà vasetto di nutella di Daniela.

Ora, stranamente il fatto che l’incontro in cui speravo tanto con i ragazzi (con il ragazzo, in realtà, e fra l’altro Adam dal vivo è molto più gnocco che in foto) sia stato molto in volata non mi ha deluso: dopo un concerto del genere sarebbe stato abbastanza difficile rimanerci male, e mi rendo conto che uscire all’una di notte con mezzo Alcatraz ancora lì non è proprio il massimo. Avere a che fare con Nell mi ha insegnato che anche gli artisti sono esseri umani (a parte me, quel lato lo sto sopprimendo con cura), e non si può pretendere di ingabbiarli nel loro personaggio pubblico costantemente. Avrò comunque occasione per rifarmi col prossimo album e tour, questo è poco ma sicuro. E poi, chissà che la percentuale di autospam contenuta nell’operazione regalo non dia i suoi frutti, prima o poi. Never say never...

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