Wednesday 19 October 2011

Within Temptation live @ Alcatraz, Milan

Ho menzionato un paio di post fa che erano circa sei anni che morivo dalla voglia di vedere i Within Temptation live, ovvero da quando ho visto il dvd di The Silent Force Tour e ho avuto modo di constatare che, oltre ad essere spettacolari a livello visivo, la resa delle loro canzoni dal vivo è semplicemente sensazionale. Poi Sharon, che live è giù brava di suo, mi era sembrata una vera dea, dato che come metro di paragone avevo quelle ciofeche di Pescy e della Tamj, rispettivamente in Anywhere But Home e From Wishes To Eternity (che già allora mi lasciavano alquanto a desiderare, specie il secondo). Il concerto di Bologna per il The Heart Of Everything Tour nel 2008 lo persi perché vivevo ancora in Africa e, molto stupidamente, avevo prenotato tutto per i Nightwish prima ancora di sapere che anche i Within Temptation avrebbero suonato in Italia, così sono rimasto a bocca asciutta fino a l’altro ieri.

Se la giornata era iniziata in maniera lol (e ho dimenticato di menzionare il flirt random con il barista al bancone di uno dei bar di Centrale), è continuata ancora più delirante, specie quando ho incontrato tutta la truppa, nell’ordine Luisa, Wretchie, Klaus e Claudio-Gaga con amico-Luigi al seguito. Baci, abbracci, akoalamenti (specie su Wretchie), bagagli mollati in albergo, e ci siamo subito diretti verso il centro per un po di shopping musicale nei soliti negozi ben noti (fra l’altro, sotto Piazza Duomo c’è un vero labirinto, trovare la Mariposa è stata una vera impresa).
Inutile dire che, come da lungo tempo profetizzato, io e Gaga ci siamo coalizzati per molestare il povero Wretchie, trasformandolo praticamente nel nostro toy-boy da scarrozzarci a braccetto per le vie del centro, sbaciucchiare a piacimento, palpeggiare a tradimento con rocambolesche rincorse (perché fuggiva, la tacchina!), e con cui cantare la Bjorka in metropolitana. Dopo un pranzo da Panino Giusto, siamo tornati in Piazza Duomo per incontrare l’alta fanciullA secsi della giornata, ovvero il buon Jonah, che ha fatto giusto un cameo prima di fuggire abbandonandoci crudelmente all’entrata della metropolitana. Cattivo, Jonah, cattivo!
Ovviamente, arrivati all’Alcatraz (con una fila già spropositata dato il sold out, come annunciato
), la sfrantness è continuata a livelli disastrosamente alti, dato che mettere me e Gaga nella fila dello stesso concerto significa trasformare il pomeriggio in un gay pride in mezzo ai metallari. Senza scendere nei dettagli, abbiamo passato il tempo in coda a blastare allegramente la Pescivendola e certi altri soprani ben noti che se la tirano, cantare le canzoni di Gaga (praticamente tutte quelle di The Fame Monster e Born This Way, per la serie “cose da fare in mezzo ai metallari”), sparare idiozie assolutamente random e, qualcuno (ma non diciamo chi), limonare praticamente da quando abbiamo iniziato a fare la fila a dopo che siamo scesi dal metrò a Centrale di ritorno al concerto. Beh, bata gioventù.
L’apertura dei cancelli ha ovviamente visto il solito casino di gente che tentava di travolgersi superarsi, e noi ci siamo buttiati nella mischia fiondandoci verso il palco e prendendo una dignitosa settima fila per poi fare i turni per bagno e guardaroba. Inutile dire che, con la mia abilità combinata con la faccia di bronzo e la magrezza, in breve tempo la settima fila è diventata una quarta con centro perfetto del palco, il tutto nel tempo compreso fra l’attesa per l’allestimento e la performance del gruppo di spalla.

Ora, sul detto gruppo di spalla, tali TriggerFinger, non so tutt’ora cosa pensare. Belgi, rock alternativo a tinte blues con sprazzi ballabili, e fin qui nulla da ridire. Solo che, appena saliti sul palco, la prima cosa che si è notata è che avevano ciascuno quarant’anni a gamba; in tre come minimo totalizzavano un’età di molto superiore a tutti e sei i Within Temptation. Il cantante/chitarrista, Ruben Block, è praticamente Theo Hutchcraft degli Hurts andato a male e in versione (ancora più) frocia; il bassista, Paul Van Bruystegem, sembra un usuraio mafioso di quelli proprio cattivi, e non si è tolto gli occhiali da sole nemmeno un secondo; il batterista, Mario Goossens, (che, avendo un nome italiano, ha ovviamente mandato in brodo di giuggiole lo stupidame ivi riunito) indossava un improbabilissimo completo a righe rosse e bianche larghe almeno cinque centimetri ciascuna. Insomma, l’impressione iniziale è stata un bitch, please bello è buono.
La performance in sé ha più o meno risollevato le sorti di questi tre arzilli signori, specie quando il Ruben, che sa indubbiamente tenere palco e pubblico, scheccava e sculettava nel suo completo elegante, dimostrando anche un sex appeal per niente arruginito (roba che, se avesse avuto trent’anni in meno, ci avrei fatto un pensierino volentieri; tanto è sicuramente una passiva). Le canzoni non posso nemmeno giudicarle adeguatamente, trattandosi di un genere con cui non ho nessuna familiarità, ma come intermezzo in attesa di un concerto sono state molto più piacevoli di quelle di altri supporter che ho dovuto subire nel corso degli anni.

Terminata la performance dei nostri vecchietti, è iniziato l’allestimento del monumentale palco dei Within Temptation, che ha previsto, oltre agli strumenti, due livelli collegati da scale, un sipario scorrevole che, unito al bordo del secondo livello, recava il logo dei Within Temptation ri-stilizzato a fenice come su The Unforgiving, un megaschermo alle spalle del tutto e un impianto di luci davvero faraonico, specie per gli standard dell’Alcatraz; nonostante il dispiego di forze tecnologiche, però, non ci sono state particolari sbavature o esagerazioni: a casa gli angeli di cartapesta, l’edera finta, le colonne con scritte in elfico, i troni e gli altri pezzi scenografici da imnaginario tipicamente Symphonic che nel 2011 sarebbero risultati pacchiani e anacronistici, indice di una maturazione della band avvenuta anche a livello estetico (diciamo “quasi”, ma questo punto lo spiegherò più avanti).
Con puntualità svizzera, alle 21 si sono spente le luci, il megaschermo si è illuminato dietro il sipario facendo risplendere la metà superiore della fenice, il sipario si è aperto, e l’inquietante Mother Maiden è comparsa sul megaschermo per raccontarci la stua storia e introdurre così il concerto, lasciando posto all’opener.

1. Shot In The Dark
2. In The Middle Of The Night
3. Faster
4. Fire And Ice
5. Ice Queen
6. The Howling
7. Our Solemn Hour
8. Stand My Ground
9. Sinéad
10. What Have You Done?
11. Iron
12. Angels
13. Memories
14. Deceiver Of Fools
15. Mother Earth

16. Stairway To The Skies

Lo show si è aperto con l’arrivo dei musicisti, che hanno preceduto una Sharon che, con la sua presenza, ha illuminato il palco ancora più dell’impressionante gioco di faretti. Con addosso il corpetto della copertina del singolo di Fater impreziosito da una cintura con fibbia in strass e pantaloni in pelle (inizialmente anche la giacchetta tamarra del video di Sinéad, ma per fortuna senza il famoso cannolo in testa), ha ingranato da subito fugando il timore suscitato dalle performance estive (discutibili per usare un eufemismo), dimostrandosi a proprio agio sia nella conduzione del palco che sulle linee vocali, senza strafare in nessuno dei due casi. Il terzetto d’apertura, tratto interamente da The Unforgiving, ha confermato l’impressione ricavata dall’ascolto dell’album, e cioè che si tratta di canzoni progettate per essere strepitose dal vivo, ognuna a modo suo. Se Shot In The Dark ha infatti immediatamente scaldato il pubblico con i suoi riff catchy e In The Middle Of The Night ha fatto esplodere il lato più metallico (headbanging, salti, corna agitate in aria), su Fater io e Luisa ci siamo immediatamente scatenati per muovere un po’ i bacini a ritmo di musica (un po’ di sana disco-dance sotto il palco dei Within Temptation l’avevamo in progetto sin dall’uscita del singolo). Sempre dall’ultimo album è tratta la prima ballad dello show, una Fire And Ice che dal vivo è scensa dritta al cuore (peccato che qualcuno avesse su la segreteria telefonica). Anche su questa canzone il riscontro del pubblico è stato notevole, ma è stato quando la band ha tirato fuori uno dei classici evergreen, l’ormai undicenne Ice Queen, che c’è stata una vera esplosione di coretti, salti e mani inaria, sicuramente incentivati da una Sharon in formissima che ha regalato una performance migliore anche delle varie registrazioni pubblicate nel corso degli anni, indice della maturità vocale che ha raggiunto. Sempre in retrospettiva le tre successive tracce, che hanno riproposto al pubblico il sinfonico a tinte dark del precedente full length con The Howling e Our Solemn Hour - la prima carica di energia e la seconda che, introdotta dal discorso di Churchill, ha permesso alla band di fare una breve pausa, con Sharon che è tornata sul palco con una specie di robo a metà fra una palandrana e vestaglia di dubbio gusto sopra l’outfit - e più classico con una intramontabile Stand My Ground, particolarmente apprezzata dal pubblico. È arrivato dunque il momento della seconda pausa, occupata dal cortometraggio di Sinéad, che ha introdotto la relativa canzone. Ora, una delle mie cose da fare assolutamente nella vita era ballare su questa canzone con Luisa al concerto, e considerando il ritmo martellante ed accattivante che ha assunto dal palco, la cosa è stata fatta con sommo piacere; dire che ci siamo scatenati e abbiamo sculettato come su una dancefloor è un eufemismo (fra l’altro Luisa balla davvero bene, dobbiamo fare una serata di discoteca casalinga con le nostre canzoni la prossima volta che ci troviamo anche con gli altri). Subito dopo, però, c’è stato uno degli episodi forse evitabili della serata, una What Have You Done? (con Keith Caputo ancora uomo registrato sia in audio che in video) indubbiamente ben eseguita ma che, a fronte di una cinquantina di canzoni all’attivo, avrebbe potuto benissimo cedere il posto a qualche titolo più interessante. Se non altro, noi perfide tacchine abbiamo ridacchaito un po’ alla faccia della cara Keith Mina, e io ho avuto modo di riprendermi per la successiva Iron, che si è confermata la Canzone Live Definitiva dei Within Temptation. Ho saltato, ho headbangato, ho agitato mani, corna, braccia e tutto il corpo, ho sudato tanto da dovermi sbottonare la camicia per non soffocare dal caldo e ho cantato a squarciagola. Peccato che, incomprensibilmente, il resto del pubblico non sembrasse aver gradito altrettanto: tolti noi pochi, sembrava di essere al Museo delle Cere di Madame Tussaud, cosa assolutamente assurda data la portata della canzone che, dal vivo, si è rivelata in tutta la sua magnificenza. Ancora più avvilente vedere i morti risvegliarsi con la successiva Angels che, per quanto singolo famoso e, nuovamente, ben eseguito, presenta gli stessi dubbi di What Have You Done? (The Silent Force ha canzoni ben più interessanti da offrire). Anche Memories, secondo lento della setata, avrebbe potuto essere sostituita con qualcosa di più fresco, ma grazie alla bellissima performance di Sharon, ha dimostrato di aver saputo resistere bene all’usura degli anni.
Altra pausa per la band, stavolta riempita dall’intro di un’altro dei classici, ovvero Deceiver Of Fools. Per l’occasione, Sharon ha rispolverato il suo timbro acido e cattivo per la gioia di molti (me compreso), riproponendo con freschezza e passione questo brano ormai decennale. Ma è stato con la canzone successiva, l’iconica e sempreverde Mother Earth (altra canzone da sentire assolutamente live prima di morire, per me), che lo show ha raggiunto il culmine, con Sharon che, alla sua solita danza con le mani, ha aggiunto anche degli ancheggiamenti sexy da epitassi (la parentesi con Armin van Buuren deve averle fatto davvero bene, a quanto pare). E brava la Sharona Milfona! Su questo finale di tutto rispetto, la band ha salutato il pubblico, tutt’altro che intenzionato a lasciarli andare tanto presto. Infatti, dopo una congrua dose di coretti, ecco partire la conclusione più degna alla serata, ovvero Stairway To The Skies. Tralasciando che ci vuole tutta la classe di Sharona Milfona per inciampare sui gradini mentre canta una canzone con questo titolo (fortuna che non ha fatto il capitombolo), oltre ad essere il perfetto finale per l’album da cui è tratta si è dimostrata anche il perfetto culmine emotivo per la performance, che non ha minimamente fatto rimpiangere la retrocessione di Ice Queen a inizio show. Ancora una volta, l’espressività di Sharon, genuina ma mai esagerata, ha fatto la differenza in un brano che fa dell’essere commovente in maniera sobria il suo punto di forza.

Tirando le somme, buona parte della magia dello show si è basata sulla performance di Sharon, sia come vocalist che come intrattenitrice. La gravidanza deve averle fatto davvero bene perché, sebbene il corpetto abbia ancora un buon margine di restringimento, di viso era semplicemente luminosa. Nonostante sia sulla soglia dei quaranta, si è mantenuta una donna di rara bellezza (non a caso è Sharona Milfona!) e, cosa ancora pià importante, né l’età, né le tre gravidanze hanno intaccato la sua voce, il punto su cui serpeggiava maggiore preoccupazione: ottima nel registro basso, in falsetto e anche col timbro cattivo. Gli altri musicisti hanno svolto il loro compito un po’ nelle retrovie, ma la cosa è abbastanza normale, considerando che la lunga assenza dalle scene della band avrebbe sicuramente catalizzato comunque lattenzione sulla frontwoman.
Come accennato sopra, la setlist è stata generalmente soddisfacente, ben bilanciata fra i vari album (considerando che ormai per Enter ci abbiamo perso le speranze) e con solo due episodi (e mezzo, con Memories) che avrebbero potuto essere sostituiti con qualcosa di migliore. Poi vabbè, personalmente avrei gradito The Promise al posto di Deceiver Of Fools, ma lì è una semplice questione di gusti.
Un punto che non ho invece apprezzato più di tanto è stato il megaschermo. Indubbiamente ottimo per la presentazione dei cortometraggi e per il cameo di Keith (Mina) Kaputo, l’ho trovato invece un elemento di disturbo durante le performance; se alcuni video erano semplicemente i clip delle canzoni (Sinéad, Angels, The Howling che ha fatto un mischione fra le due versioni) ed altri ne riprendevano blandamente il tema (Ice Queen con le montagne innevate, Our Solemn Hour con scene belliche, Mother Earth con vari panorami, Stand My Ground la pioggia davanti ai grattacieli, Memories con le foglie che cadono, i candelieri al soffitto e Sharon che vaga stile fantasma), altri erano piccoli cortometraggi inediti che tendevano a distrarre da ciò che stava succedendo nel palco, spesso anche con effetti speciali di dubbia efficacia (il video per Stairway To The Skies è stato abbastanza atroce). Ma come pecca non è nemmeno madornale, alla fine sta allo spettatore decidere dove dirigere l’attenzione, e Sharon si destreggia più che bene nel non faarsi rubare la scena dalle animazioni. In questo sta il famoso “quasi” riferito alla maturità visiva della band, visto che in questo ambito si è ancora un po’ strafatto.

In definitiva, comunque, la lunga attesa per questo concerto dei Within Temptation è stata più che ripagata. Una delle band più importanti della mia vita e che volevo assolutamente vedere in concerto mi ha regalato una performance assolutamente soddisfacente (top 5 assicurata), e spero vivamente in qualche altra data accessibile nel corso del tour (dovesse anche essere Londra, per dire). Bravi, Within Temptation, e a presto rivederci!

2 comments:

  1. Uau, che resoconto emozionante!

    ReplyDelete
  2. Merito del concerto che ha suscitato le emozioni. :)

    ReplyDelete