Sono stati un grandissimo e ben riuscito fulmine a ciel sereno. Davvero, nessuno se li aspettava, prima fra tutti la loro ex compagna di squadra Amy Lee, la quale, a giugno 2009 (data dell’annuncio della loro formazione) era lanciatissima a progettare una carriera solista e da compositrice di colonne sonore, salvo poi ritrattare tutto dopo sette mesi di silenzio di fronte alla possibilità che le vedove degli Evanescence trovassero dei visi noti al funerale e decidessero di consolarsi con quelli.
È in questo clima, dove tutti tranne le fangirl più accanite di Amy Lee davano gli Evanescence per morti, che sono spuntati dal nulla i We Are The Fallen, precedentemente The Fallen, quintetto americano dal ruffianissimo nome che fa chiaro riferimento al fortunatissimo secondo album (nonché debutto internazionale) degli Evanescence, Fallen. E il riferimento è tutt’altro che casuale, dato che la band annovera l’ex-chitarrista (nonché cofondatore e principale songwriter dei primi Evanescence) Ben Moody, riunito dopo anni con lo storico batterista e il secondo chitarrista, Rocky Gray e John LeCompt, assieme al nuovo bassista Marty O’Brien (anche se c’è da scommettere che prima abbiano chiesto a Will Boyd, e peccato che non abbia accettato). Ciliegina, la nuova vocalist, l’ex-American Idol (nonché sorella segreta della Lee se si considera l’aspetto fisico) Carly Smithson.
Immediatamente strombazzati ai quattro venti dai media come i nuovi Evanescence senza Amy Lee, è in questo clima mediatico di dubbio gusto, e con la promessa puntualmente disattesa di registrare e pubblicare online una canzone ogni poche settimane, che si sviluppa la band, prontamente scritturata da una major, la Universal Records: presto arriva sul web il primo, deludente singolo, Bury Me Alive, una canzone piuttosto radio-ruffiana e priva di grande interesse che delude immediatamente le aspettative di chi li aveva abbracciati con entusiasmo, e fa gongolare le fangirl della Lee ancora attaccate al complesso di Ben Moody brutto e cattivo che maltrattava la loro beniamina. Come accennato, al primo e deboluccio singolo non fa seguito la release di altre canzoni come promesso, motivo per cui, quando arriva l’annuncio che la band sta registrando il suo album di debutto da pubblicarsi nella prima metà del 2010, sono in pochi ad accogliere la notizia con entusiasmo. Le fasi della lavorazione, che si svolgono mentre dall’altra parte della barricata la Lee si affanna a tirar fuori gli Evanescence dallo stato vegetativo in cui versano, vengono documentate costantemente dalle foto sul Myspace dei Caduti, che coltivano con cura i contatti coi fan. È così che, anticipato dal video dell’ormai stantio singolo (una tecnicamente ben realizzata accozzaglia di cliché gotici fra cui un funerale, una cattedrale e una morta che esce dalla tomba), il tanto atteso (?) album esce il 10 maggio 2010.
Aiutatemi a dire: “Cliiiiiichéééééé”. |
Date le premesse, le aspettative erano abbastanza basse. Ma se inizialmente sembrava che il progetto fosse nato dalla domanda “Che cosa sarebbe venuto fuori se, invece di farsi cacciare uno ad uno, fossero stati i musicisti a sostituire Amy Lee?”, la risposta è senza dubbio “Non i We Are The Fallen”. Contro ogni previsione, infatti, la band ha tirato fuori un album con una propria identità, che degli Evanescence ha solo il fatto di saper creare canzoni orecchiabili e non eccessivamente
impegnative ma che non scadono nello scontato o nel
banale, merito del songwriting di Moody, che stava comunque alla base sia allora che adesso.
Mettiamolo in chiaro: non è l’album dell’anno né un pezzo vitale senza il quale il genere non potrebbe sopravvivere. Non offre grandi innovazioni, non è particolarmente pesante e ha i suoi episodi di matrice sfacciatamente radiofonica che potrebbero far storcere il naso all’ascoltatore più esigente. E i testi non sono proprio un punto forte: troppe immagini proposte migliaia di volte che ammiccano a un target adolescenziale.
Con questa premessa, però, il prodotto è un bel modo per trascorrere 46 minuti piacevoli all’insegna di un rock a tinte oscure con canzoni di una certa classe, che emozionano spesso e fanno venire voglia di ridare un ascolto anche molto presto. Il bilancio finale è di due canzoni bocciate, tre che non dicono molto e sei più che positive. Ottimo lavoro anche per l’osservata speciale, Carly Smithson, che riesce a dimostrarsi indipendente dalla precedente partner musicale di Moody e la ricorda solo in qualche passaggio sparso, per lo più in canzoni che già di loro non brillano particolarmente.
La già citata Bury Me Alive, palesemente nata come singolo di traino, non riesce ad essere abbastanza convincente al di là del sound radio-friendly, risultando scontata e un po’ banale nonostante l’outro di archi (aggiunta in seguito) cerchi di salvarla. Without You, altro episodio sul commerciale andante, tenta di rendersi interessante con un ritmo cadenzato ma la melodia grida “prevedibile” per tutti i tre minuti della durata e presenta forse la Carly di stampo più Evanescente, cosa che altrove dimostra di saper evitare. Fra le canzoni che non convincono ma si salvano c’è Burn, senza merito né infamia, abbastanza anonima ma che non rovina il pacchetto; Paradigm, altra melodia che può infastidire col suo essere molto prevedibile ma che viene salvata da tastiere e chitarre che le danno un che di particolare; Through Hell, che rimedia a una certa fiacchezza del ritornello con una magistrale intro vocale, una bella performance della Carly nelle strofe e una piacevolissima sferzata di chitarre e batteria nel bridge.
Il menù degli episodi positivi è decisamente più ricco. Le due ballate, ad esempio, riescono a essere delicate e convincenti assieme, senza risultare banali o sdolcinate – sia l’interamente acustica a predominanza di archi I Am Only One, sia la power (sul finale) Sleep Well, My Angel: quest’ultima, in particolare, pur partendo col classico giro di piano che fa sospirare “ecco la ballatona”, arriva a dare brividi e cammina sulle proprie gambe, svicolando da un facile confronto con My Immortal nonostante ne condivida buona parte della struttura; d’altro canto, la classe nello scrivere ballate Ben Moody l’ha dimostrata da tempo, visto che la stessa My Immortal è una sua creatura. Don’t Leave Me Behind e I Will Stay sono quelli che considero i picchi emotivi dell’album, entrambe mid-tempo con strofa quasi acustica e chitarre distorte solo sul ritornello: nulla di eccezionale dal punto di vista strutturale, ma in qualche modo hanno quella magia che entra sotto la pelle, merito soprattutto della performance di Carly; hanno anche i loro pregi musicali, la prima con una lodevole intro al piano (merito di David Hodges, che partecipa come ospite speciale alla rimpatriata) e la seconda con vocals stratificate che danno incisività alla melodia e una chitarra quasi ipnotica. Infine, menzione speciale per St. John e la title track, i picchi compositivi dell’album: la prima è la traccia più veloce, con melodie vocali variegate, fra un filtrato, acuti da maniero infestato e parti quasi parlate che si intrecciano su un tappeto di chitarre e pianoforte onnipresenti e quasi ossessive; la seconda, invece, è più lenta e maestosa, oscura, impreziosita dalla performance del Millennium Choir (anche loro facenti parte della rimpatriata evanescente) e da un’intro con violini quasi gementi, e mostra una Carly che si cimenta su un ampio registro, da note basse e soffuse ad altre più alte ed energiche. In definitiva, una più che degna conclusione dell’album, che ben si accompagna alla copertina oscura del cd.
Molto bene anche nelle due bonus track: Samhain sarebbe probabilmente stata un singolo d’apertura molto più degno, con la sua atmosfera a tratti quasi horror che sfocia in un ritornello energico e catchy che non sfora nello scontato; Like A Prayer, infine, è una cover molto ben riuscita con un magistrale uso di piano, coro e addirittura organo, che la rendono quasi più mistica dell’originale di Madonna, mentre le chitarre danno una nuova linfa vitale al pezzo.
In definitiva, a dispetto di una campagna mediatica discutibile, l’album è venuto su piuttosto bene. Così come ha i suoi difetti, ha anche molti pregi e riesce a essere un debutto di tutto rispetto. E a dirla tutta, se il risultato è questo si può benissimo chiudere un occhio (o due) sulla condotta della band (anche perché la Lee non si sta comportando molto meglio).
Consigliato a: tutti i fan degli Evanescence, nel senso di band in qualunque sua incarnazione dal 1998 al 2007, e non di surrogato di Amy Lee (ne esisteranno ancora?). Ma anche a tutti gli ex fan, gli amanti di un rock a tinte oscure o del metal melodico ma in vena di una serata piacevole e poco impegnativa.
Astenersi: le fangirl di Amy Lee. Tanto farà loro schifo per partito preso (quelli con cui ho parlato hanno detto che hanno copiato di tutto, da Ozzy Osbourne ai Nightwish passando per Lady Gaga); tanto vale risparmiarsi tre quarti d’ora di negazione forzata e menzogne a se stessi. Continuino pure ad aspettare il ritorno del messia, i Caduti si sono rialzati benissimo anche senza di loro.
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