Wednesday 10 February 2021

Eclettismo

Dieci anni fa in questi giorni, durante un viaggio a Torino da Colei-Che-Non-Sarà-Nominata, leggevo il mio primo numero di Vogue e compravo la mia prima rivista di moda, 7th Man Magazine. Ai tempi avevo già iniziato a svecchiare i miei gusti musicali uscendo dal tunnel del “solo metal o stretti dintorni” grazie a Emilie Simon, Florence + The Machine e un po’ di PJ Harvey (Kari Rueslåtten, che era arrivata già a fine 2009, conta sempre come “dintorni”), ma ero ancora più o meno ingabbiato nell’idea delle sottoculture e dei preconcetti che si portavano appresso, tra cui quello di essere mutualmente esclusive con “il mainstream” e intrinsecamente migliori (la mia smugness a riguardo è evidente nel post che ho linkato). C’eravamo noi, gli eredi del Romanticismo e del Decadentismo, e c’erano loro, quei pezzenti che non si schiodavano dal minimo comune denominatore. (Che poi, pensare che il Decadentismo fosse profondo la dice lunga su quanto poco avessi capito del mondo). Era inconcepibile, per me, che la società “normale” volesse includere i temi oscuri a noi tanto cari nelle sue espressioni artistiche, men che meno nella moda, che era il prodotto più superficiale e frivolo di quell’alveare malato!
(Fa riderissimo, per inciso, che credessi che invece l’essere goth non fosse in tutto e per tutto una scelta di moda ed estetica, solo una che includeva un sacco di brutti tessuti sintetici che rovinavano la resa fotografica di buona parte degli abiti).
 
Freja Beha Erichsen ritratta da Mario Sorrenti.
 
D’altra parte, già in quel post traspare la voglia che avevo di sperimentare e uscire dagli schermi che mi ero autoimposto: per molti versi, quel Vogue è stato un moto di ribellione verso il conformismo della sottocultura a cui appartenevo, così come una foto “ironica” che avevo fatto, un modello seduto accanto a un graffito che diceva “Lady Gaga!”. E non sto scherzando né esagerando: è stato con un deliziato senso d’iconoclastia che ho accettato l’idea di ispirarmi a una foto di Vogue Paris per un concept che affondava le sue radici nella musica dei Delain. Era come prendere una scena “sacra” e rappresentarlo usando il “profano”, o qualcosa di simile. Ne ero elettrizzato. Anche se ho “rubato” solo la posa cambiando del tutto l’angolazione e l’atmosfera per rendere l’immagine finale più morbosa, è stato un passo importante non solo nella mia crescita artistica, ma anche umana. Per questo sono ancora molto affezionato alla foto che scattai in quell’occasione, nonostante la luce sia chiaramente amatoriale, la composizione un po’ caotica, il taglio non molto elegante e abbia enfatizzato alcuni difetti della modella (hello, denti da Parker-Bowles): è stato un rito di passaggio.

Alla fine, dopo quel Vogue mischiato ai Delain, sono arrivati Lady Gaga in maniera non ironica e gli Hurts a smantellare quel che rimaneva dei miei preconcetti gotici. Ho iniziato a frequentare i negozi di abbigliamento “mainstream” e entro fine anno ho iniziato a far crescere la barba e alleggerire il trucco degli occhi. L’anno dopo, con We Are The Others i Delain stessi hanno confermato quello che avevo cercato di negare già in April Rain, e cioè che mescolavano già metal e pop, e la combinazione funzionava dannatamente bene. Ma è stato quello il momento in cui ho abbracciato l’eclettismo perché finalmente ne ho compreso l’importanza

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