Sunday, 26 May 2019

Inaspettata assoluzione

Tutte le famiglie sono complicate, anche quelle non disfunzionali. La mia, che disfunzionale lo è stata per la maggior parte della sua storia, riserva sempre nuove sorprese. È da relativamente poco che sto realizzando quanti livelli di complessità ci siano, e che la situazione non è bianca e nera come mi sembrava da piccolo, specie nel puntare il dito su una o sull’altra parte.
Però, fra le varie cose che pendono innegabilmente e oggettivamente a favore della Mater, c’è il modo in cui i due ex hanno tentato di influenzare il mio rapporto con la controparte: la famiglia di mio padre ha cercato attivamente di mettermi contro mia madre col beneplacito (o, per lo meno, col tacito assenso) di mio padre, mentre mia madre ha sempre tentato di incoraggiarmi ad avere un rapporto quantomeno civile con mio padre.
Alla luce della redistribuzione delle colpe che ho dovuto fare, è evidente che, nell’usarmi come mediatore fra loro due, la Mater ha finito inevitabilmente per espormi all’inaffidabilità e meschinità di mio padre. Però, dall’altra parte, ha sempre cercato di mitigarla, di incoraggiarmi a vederlo, a parlare con lui, a volergli bene, di sottolineare le cose che faceva per me. E no, non sono ingenuo: fin da ragazzino mi rendevo conto che lo faceva perché, essendo una giurista, era il modo più sicuro per evitarsi grane in tribunale. Parlandone molto dopo, l’ha anche ammesso candidamente: l’ha fatto per quello e per evitare che, diventato adulto, le rinfacciassi che mi aveva impedito di costruirmi un rapporto con mio padre, perché riteneva fosse importante che lo avessi.

La cosa che mi ha sorpreso, però, è che qualche sera fa mi abbia confessato di sentirsi in colpa per non essere riuscita a farmi instaurare un buon rapporto col Procreatore. Avrebbe potuto fare di più, mi ha detto, e questo le è pesato fin da quando si sono separati.
Sinceramente, io sono cascato dal pero.

Quando ero piccolo, ricordo che ero sempre felice quando, d’estate, mio padre ci raggiungeva al mare per il week end, perché sapeva costruitre le mura dei castelli di sabbia meglio della Mater.
E niente, questo è quanto. Questo è il miglior ricordo d’infanzia che ho di me e mio padre.
Ricordo anche la volta che ho imparato che le cuticole non si tirano via a mani nude: ero con lui nel bar del corso – quello con gli archi dentro – ed ero talmente annoiato mentre lui parlava con i suoi amici che avevo iniziato a tirarmi le pellicine alla base delle unghie, scoprendo con le cattive che sanguinano e fanno male.
Ho mille ricordi di quando la Mater mi portava a spasso in paese la domenica, verso la stradina bianca che scendeva giù dalla collina, sopra la vallata con quel grande abete, in centro a vedere il larice all’ingresso del paese, o a salutare “la mia amica quercetta”, o a raccogliere i fiori di tiglio. Non ho nulla del genere con mio padre.
Tutte le volte che si andava in campagna, era sempre la Mater a staccare un po’ dal raccogliere le olive o le ciliegie per fare una passeggiata nel bosco, cercare i funghi con me, osservare gli animaletti, addirittura arrampicarsi su per la collina di fronte alla vigna perché un vecchio pilone in cemento mi sembrava chissà cosa e volevo vederlo da vicino. Lui non si è mai staccato da ciò che stava facendo per assecondarmi un quarto d’ora. E non certo perché la Mater mi monopolizzasse: anche lei lavorava e spesso mi doveva lasciare con lui, che invece se ne stava a guardare la TV mentre io giocavo per conto mio sul tappeto.

Tolti i castelli di sabbia, i primi ricordi di me e mio padre davvero insieme li ho, cronologicamente parlando, da dopo il divorzio. Avevamo le storielle a puntate che mi raccontava sugli animaletti del bosco e della campagna, i giochi, i giri in macchina in cui ogni pulsante era un qualche gadget supertecnologico… oh, e ovviamente i viaggi a Salsomaggiore e perfino all’estero. Ma fin da piccolo ho pensato che fosse too little too late. Ha iniziato a occuparsi di me solo quando non ha avuto altra scelta, quando doveva fare bella figura col giudice, e mentre con una mano dava, con l’altra toglieva. Le storielle degli animali del bosco le ricorderei con molto più piacere se non fossero state intramezzate dalle sue sorelle che mi facevano pressione psicologica perché odiassi la Mater. I viaggi mi sarebbero sembrati meno un tentativo di metterci una pezza con i classici “grandi gesti”, se non fossero arrivati anni dopo quegli episodi.

Così, mi sono trovato, a trent’anni appena compiuti, a spiegare alla Mater che il massimo che ha potuto fare per incentivare il rapporto fra me e mio padre è stato proprio non mettergli i bastoni fra le ruote. Di più non poteva.
In primo luogo perché, con la scarsa attenzione che lui mi dava finché erano sposati, mio padre non ha fornito molto materiale con cui lavorare alla costruzione. In secondo luogo perché, a divorzio in corso, è stato lui stesso ad auto-sabotarsi fino a che non è stato troppo tardi.
E soprattutto perché, semplicemente, la Mater non poteva fare il lavoro per lui. Non era lei a dover costruire per mio padre il nostro rapporto, se lui non ci si è mai impegnato finché poi è stato troppo tardi, e anche lì ha fatto il minimo sindacale.  Non può sentirsi responsabile per come sono andate le cose fra me e l’altro genitore, quando la responsabilità di costruire un rapporto è strettamente individuale: lei si è impegnata per costruirne uno con me, lui no. Fine.

Eravamo in Piazza Unità, di ritorno da Fiorellino, quando siamo arrivati a questo punto del discorso, e la Mater si è letteralmente fermata sul posto a fissare il vuoto in preda all’epifania. Era sorpresa perché non aveva mai considerato la cosa da questo punto di vista: poteva sopperire alle mancanze pratiche del suo ex, a tutto il livello educativo, economico, logistico… ma non a quello umano. Quello è una responsabilità individuale e ognuno deve coltivarlo per sé.
Mi ha detto che si è sentita liberata da un peso.

E onestamente, a me è anche dispiaciuto per lei: è vissuta per ventiquattro anni portandosi dietro un senso di colpa che non avevo idea che avesse. Anzi, a ben vedere non aveva proprio ragione di esistere. Se avessimo affrontato prima il discorso, magari se ne sarebbe liberata prima.
Beh, meglio tardi che mai.

Wednesday, 22 May 2019

Trent’anni, yay.

Credo che dovrei scrivere qualcosa d’importante per commemorare i miei trent’anni ma, sinceramente, non ho chissà cosa da dire. E no, non è perché “trenta è solo un numero” o altre scemenze del genere: le età divisibili per dieci sono sempre un passaggio importante. Abbiamo troppo condizionamento culturale alle spalle per illuderci di poterle ignorare così.

Ho anche provato a barare, a rileggere il post che scrissi per i vent’anni sperando di trovare un po’ d’ispirazione, ed è stato ancora peggio. Ai tempi chiamavo i vent’anni “il periodo d’oro” della mia vita, eppure ora mi sembra di aver dormito per una decade e non essere ancora del tutto sveglio. Ci sono solo due cose che mi fanno pensare che sia valsa la pena di vivere quest’ultimo decennio: le foto che ho scattato e l’amicizia con Katia. Senza voler far torto a tutti gli altri miei amici e le persone a cui voglio bene, ma Katia è davvero una delle poche cose che mi fa dire: non cambierei nulla di questi anni, anche se potrei migliorare molte cose; non vorrei rischiare di compromettere nessuno dei momenti che abbiamo trascorso insieme.

A parte questo, festeggerò il mio trentennio tornando ragazzino: stasera arriva a Trieste la Mater e non vedo l’ora di farmi coccolare e  non dover cucinare, lavare, pulire ed essere adulto. D’altro canto, non sono nemmeno lontanamente al punto in cui pensavo che sarei stato a trent’anni – e, quel che è peggio, qualche mese fa avevo anche iniziato a sperarci un po’. Ma insomma, un po’ di vita famigliare fuori sede è un buon modo per attutire il colpo della nuova decina, per cui ben venga.

Onestamente, non ho idea se pubblicherò davvero questo post. Forse sì. O magari rimarrà a marcire fra le bozze finché non deciderò di dimenticare questo momento e lo cancellerò. O magari lo pubblicherò per ricordarmi che, pur partendo da un posto molto oscuro, i miei trent'anni vedranno una rinascita. Boh.
Nel frattempo, tanti auguri da me. Cento di questi gior– lol, anche no, grazie.

Monday, 20 May 2019

Young & Beautiful

Ricordate i tempi in cui ero un adolescente in fissa con Il Ritratto di Dorian Gray e dicevo di avere il terrore di invecchiare perché la bellezza è tutto, e “will you still love me when I’m no longer young and beautiful?” quando Lagna del Rey era ancora 100% biodegradabile, e dicevo di voler morire a trentott’anni, l’età di Dorian, piuttosto che avvizzire, e altre cazzate?
In realtà, chiaramente, non erano che pose che mi sparavo per darmi quel tocco decadente-chic e passare per il finto superficiale che in realtà non lo pensa davvero perché è più profondo della pozzanghera che vuole apparire. Di nuovo, Lana, non hai inventato nulla, fattene una ragione.

Eppure, eccomi qui, con poco meno del doppio degli anni e ancora il terrore, stavolta genuino, della vecchiaia. Un terrore razionale e pragmatico, da adulto.
Sarà che i miei genitori mi hanno avuto tardi e quindi sono già anziani. Sarà che la Mater frequenta un sacco di badanti e quindi sento spesso le storie sui loro assistiti, ma la vecchiaia inizia a diventare il mio incubo.
Seriamente, cosa diavolo pensavamo quando abbiamo iniziato ad alzare così tanto l’aspettativa di vita? Non ci rendevamo conto che allunghiamo solo i tempi più brutti? Non passa mese che non spunti fuori un nuovo acciacco. Che qualcosa, nel corpo, non inizi a deteriorarsi, a provocare dolore, a limitare le cose che si possono fare. Una nuova malattia che potrebbe essere o non essere curabile e diventare cronica, l’ennesima pastiglia da ingoiare due volte al giorno. La coordinazione occhio-mano che diminuisce, muscoli e nervi che rispondono sempre meno, la goffaggine che avanza.
E questo è lo scenario migliore, perché lo spettro di diventare non più autosufficiente fa impallidire i dolorini e le mille medicine per malesseri minori. Le malattie degenerative, certo, ma anche il semplice fatto che, con l’avanzare dell’età, si finisce per non riuscire più a fare nulla. Si inizia la vita come esseri indifesi che hanno bisogno di essere nutriti, puliti e trasportati, e la si finisce allo stesso modo. Dover dipendere da qualcuno è orribile: chi ha mai pensato che aggiungere dieci o vent’anni di questo incubo fosse una buona idea?
Non entro nemmeno nel merito, poi, del dramma sociale che sarà, per la mia generazione, la vecchiaia, con una pensione misera perché il mercato del lavoro che dobbiamo affrontare è un casino, e una generazione di figli che probabilmente sarà ancora meno in grado di provvedere alle nostre pensioni di quanto noi lo siamo per i baby boomers.

Certo, un po’ mi consola sentire la Mater che dice che la nonna, alla sua età, era molto più vecchia: magari, avendo vissuto da sempre con una nutrizione e una medicina migliori, io arriverò alla sua messo ancora meglio. Ma non mi aiuta molto a calmare l’ansia. Sinceramente, al di là del fatto che già ora non ne ho più voglia, se ho un desiderio nella vita, è di non superare i sessanta, massimo settant’anni, di morire prima di ridurmi a una larva di ciò che sono stato.

Friday, 17 May 2019

Crowning moment of awesome

Che io abbia un’autostima inesistente e una colossale sindrome dell’impostore è cosa nota. Era da qualche settimana che lottavo con l’idea di contattare un ragazzo che ho scoperto su Instagram per proporgli di posare per me. Ho sempre paura che le idee che ho non siano abbastanza buone, che il mio approccio non sia abbastanza professionale, di non essere, in generale, all’altezza del tempo che chi posa per me mi dedica. Chissà chi ha acuito questa mia paura nell’ultimo anno.
Alla fine, ho chiesto al ragazzo di posare non perché ho in qualche modo superato la mia paura, ma perché posso pagarlo per farlo. E posso pagarlo (anche piuttosto bene) per farlo perché DeviantArt mi ha commissionato un lavoro per il mese del Pride.

Già: sono stato uno degli otto artisti contattati come prima scelta per creare delle opere basate sulla bandiera del Pride di Philadelphia, una per ciascun colore con relativo significato. E, fra l’altro, sono stato l’unico fotografo contattato: gli altri sono tutti pittori e illustratori.

Adesso che la foto è fatta e postprodotta all’80%, posso smettere di essere un fascio di nervi, fare un bel respiro e concentrarmi su quanto fantastica sia stata quest’opportunità: la community alla quale contribuisco silenziosamente da anni ha ritenuto la mia arte abbastanza buona da commissionarmi un lavoro, pagandomi profumatamente, per una delle manifestazioni virtuali più importanti dell’anno. Non qualche amico che, ne sono sempre convinto, mente a denti stretti per non ferire il mio ego; non qualche committente che si fa andare bene me perché costo poco; non la mia band preferita che voleva cercare di rendere felice la loro fangirl per pena; non qualche pinco pallino che non se ne intende: DeviantArt, che ha a disposizione migliaia di utenti a cui chiedere. È una cosa talmente grande che nemmeno io riesco ad auto-sabotare questo momento di gloria.

Inoltre, la tempistica è semplicemente perfetta: dopo un annus horribilis come questo, sento una necessità fisica di buttarmi in qualche forma di attivismo, di creare un lavoro che sia un messaggio sulla causa che mi trovo a combattere silenziosamente ogni giorno. Non importa se per qualcuno sono un semplice spauracchio da agitare per raccogliere consenso: non lascerò che la mia umanità passi in secondo piano, e voglio incoraggiare quanti più ragazzi e ragazze LGBTQ+ a tenere duro e far sentire la propria voce.

Certo, il timore che poi non siano soddisfatti del mio lavoro c’è, ma ci ho messo davvero anima e corpo, dalla concettualizzazione all’organizzazione, dall’acquisto dei materiali all’individuazione della location, aggiustando i piani in base al meteo, fino allo scatto effettivo e la postproduzione. Non posso rimproverarmi nulla e, per una volta, sono genuinamente orgoglioso del mio lavoro.

Tuesday, 14 May 2019

The Mad Queen, parte 2


Il post precedente non è bastato a sfogare il mio… diasgio? delusione? frustrazione? Insomma, la sensazione di incompletezza che il penultimo episodio di Game of Thrones mi ha lasciato dentro. Una sensazione che è diversa dal vuoto della fine, del viaggio terminato, del perdere un personaggio verso cui provavo un odio che mi teneva caldo la notte, ma al cui destino ero comunque interessato.
Ribadisco, la morte di Cersei, specie come si è svolta, mi ha soddisfatto intellettualmente; eppure c’è qualcosa che continua a mancarmi emotivamente.
Poi, rileggendo il post, mi sono accorto che avevo anche scritto cosa mi è mancato: non ero interessato solo alla morte in sé, ma alla giustizia per i Tyrell. E quella non c’è stata.

I’m the Queen of the Seven Kingdoms”, chiosa Cersei nella premiere della settima stagione. “Three Kingdoms at best”, risponde Jaime, nonostante non sia mai stato il coltello più affilato del cassetto. “I’m not sure you understand how much danger we’re in.
Ecco, io ho guardato le ultime due stagioni di Game of Thrones per quello. Game of Thrones, lo show in cui ogni scelta politica, anche la più piccola, ha conseguenze concrete e pesanti. Cioè, quando uscì il finale della sesta stagione, scherzando, feci questo meme:


Cersei Lannister ha compiuto un’atrocità con pochi precedenti perfino in un mondo gretto come quello di Westeros. Ha distrutto una porzione consistente della capitale dei Sette Regni, con le relative vittime nobili e popolane. Ha fatto saltare in aria l’equivalente del Vaticano in una società che è ancora fortemente permeata di religiosità. Ha preso il potere contro ogni consuetudine o legge feudale, senza una sola delle istituzioni tradizionali di Westeros a sostenerla. E ha decimato quella che era la famiglia più ricca dei Sette Regni, una delle più influenti, con parenti sparsi in due terzi delle famiglie minori della loro regione, con in mano la maggior parte delle risorse alimentari della nazione, nonché, probabilmente, la famiglia più amata dalla popolazione.
Cosa è stato di tutto ciò nelle ultime due stagioni?

È facile immaginare come abbia messo le mani sulla corona: con la morte di Tommen, nel caos, nello sbigottimento e nel terrore generali, si è installata sul trono perché nessuno era fisicamente nella posizione di impedirglielo. Ma, nonostante questo, il suo potere effettivo ha dei grossi limiti: le Crownlands, storicamente non autosufficienti, le Stormlands, da anni senza una chiara situazione governativa, le Westerlands, che campano solo del buon nome che le loro miniere ormai vuote non potranno più dare a lungo, e le Riverlands, completamente devastate dalla guerra e, probabilmente, in preda all’anarchia ora che i Frey sono stati spazzati via.
Una situazione del genere va oltre mezzo commento da Jaime: il popolo di Cersei ha ben poco da mangiare, specie nella capitale (che pure è l’unico territorio che può effettivamente controllare). Anche contando Euron e le Iron Islands, che pure sono in piena guerra civile, cosa può portare in tavola se non il bottino di qualche ruberia?
Perfino dopo il modo ridicolo in cui è stato risolto l’assedio di Highgarden, quando la Danana dà fuoco a tutte le provvigioni del Reach in arrivo a King’s Landing ed è messo in chiaro che il popolo di Cersei non avrà più nulla da mangiare, non abbiamo nessuna scena che menziona la cosa. Sappiamo solo che l’oro è arrivato e la Iron Bank è stata pagata, poi stop. La volta successiva che vediamo la popolazione della capitale è quando Cersei ne fa entrare parte nella Red Keep per “proteggerli” dalla Danana, senza preoccuparsi minimamente che, senza le mura della fortezza a dividerli, quelli possano agguantarla e smembrarla per il suo malgoverno.
Verosimilmente, ciò che tiene insieme il regno di Cersei per due stagioni è il terrore che possa esserci un’altro Tempio di Baelor. È la Montagna zombie che spacca le teste. Sono le guardie che reprimono qualsiasi malcontento. Ma la popolazione dev’essere per forza stremata, affamata e pronta a ribellarsi, altro che tirare verdure in faccia a Ellaria e Tyene Sand e nascondersi da Daenerys, l’invasore!

Eppure, tutto ciò passa in secondo piano. Nelle poche vedute panoramiche di King’s Landing, il cratere lasciato dall’esplosione del Tempio di Baelor nemmeno si vede. Lì, dimenticato. Perché ricordare anche solo quello avrebbe reso assurdo che il regno di Cersei non stesse implodendo prima ancora che la Danana arrivasse a King’s Landing. Le azioni di Cersei non hanno potuto avere conseguenze perché, altrimenti, il minimo che gli abitanti di King’s Landing avrebbero potuto fare sarebbe stato ammazzare quante più guardie possibile e spalancare le porte per la Danana. È impossibile immaginare che chiunque fosse arrivato sarebbe stato peggio di ciò che avevano già.
Ma per rendere la Danana la Regina Pazza che ha riversato inenarrabili orrori sulla popolazione, lo show ha dovuto ignorare che, di Mad Queen, ne aveva già una.
Metatestualmente, un po’ è stato bene a Cersei, essere ridotta a un’ubriacona che si lamenta degli elefanti, guarda fuori dal balcone e non fa praticamente nulla per tutta la stagione. Ma il suo personaggio si meritava di meglio. Soprattutto perché, sparite le conseguenze della distruzione del Tempio di Baelor, è sparita anche la soddisfazione di vederla pagare per ciò che ha fatto ai Tyrell. E dubito fortemente che l’ultimo episodio rimedierà a questa mancanza.

Bene, con questo spero di aver sfogato tutto ciò che ancora avevo da dire su Game of Thrones: al momento, ho delle cose molto più importanti a cui dedicarmi (ne parlerò presto) e ho bisogno della mente sgombra. E una parte di queste cose più importanti sarà anche un omaggio segreto a Margaery.

Monday, 13 May 2019

The Mad Queen

Sin da quando ho iniziato a scrivere il post su Margaery Tyrell come icona LGBTQ+, ho portato avanti un post parallelo, ancora incompleto, in cui analizzo e demolisco la figura di Cersei Lannister, mostrando come sia assolutamente venefica e priva di qualsiasi qualità che la redima.
Dopo l’episodio appena trasmesso, non so di preciso che fine far fare a quel post: vale ancora la pena di parlare di Cersei Lannister o, in generale, Game of Thrones, visto il crollo qualitativo che la serie ha avuto nelle ultime due stagioni? Il finale lo guarderò per testardaggine, perché ho seguito questa serie per anni e ormai arrivo fino in fondo, ma non posso fare a meno di chiedermi se sia valso il viaggio.
E parte di questa domanda ha a che fare proprio con Cersei, il personaggio che più ho amato odiare.

Dopo il finale sella sesta stagione, ho continuato a guardare la serie per puro spirito di rivalsa Tyrell: volevo gustarmi come, scelta assurda dopo scelta assurda, Cersei sgretolava il suo già precario regno, alienava uno dopo l’altro i suoi sostenitori (a partire da Jaime, che aveva sacrificato tutto per evitare che Aerys II facesse proprio ciò che ha fatto lei al Tempio di Baelor) e, infine, rimaneva uccisa dalle conseguenze inaspettate del suo ultimo piano “brillante”.
E ammetto che, da questo punto di vista, The Bells mi ha tenuto col fiato sospeso sino alla fine: sta’ a vedere che, in mezzo a tutta questa carneficina, proprio quella stronza riesce a mettersi in salvo e farla franca? Vuoi vedere che ci negheranno anche la soddisfazione di vederla morire male? Che il plot twist sarà proprio quello?
Quando finalmente tutti quei mattoni le sono crollati addosso, ho emesso un verso che era per metà un sospiro di sollievo e per metà un grido di trionfo, ho subito brindato col mio succo d’uva (ché per il vino è un po’ presto a quest’ora, per noi) e mi sono arrotolato i baffi immaginari.
Ma il senso di giustizia per i Tyrell è poi arrivato? Non proprio.

La morte di Cersei in sé è stata soddisfacente e anche adatta al personaggio: come avevo previsto, è morta perché il suo ultimo piano geniale non è andato poi troppo bene, figurativamente e letteralmente intrappolata nel vicolo cieco delle sue pessime scelte mentre tutto le crollava addosso. Non una morte dignitosa, pubblica, in grande stile: una morte quasi solitaria, semi-dimenticata in uno scantinato, triviale come un mattone in testa, per una piccola donna meschina.
Ho apprezzato i parallelismi con quella di Margaery, ad esempio: ci sono regine che muoiono a testa alta. Sono consapevoli della gravità della situazione ma, nonostante l’intelligenza, non hanno via di fuga perché accade tutto all’improvviso. Però sono forti abbastanza non solo da affrontare la morte con dignità, ma confortare e sostenere i loro fratelli feriti, e preoccuparsi per la salvezza del resto della famiglia, che amano, fino all’ultimo istante.
E poi ci sono regine che muoiono a capo chino. Hanno avuto avvertimenti multipli e perfino una via di fuga in extremis, ma sono troppo stupide e boriose per capire quanto siano in pericolo. Così se ne vanno spaventate, piagnucolando e cercando conforto fra le braccia dei loro fratelli feriti, nonostante l’intera famiglia, che odiano, si sia preoccupata e prodigata fino all’ultimo per farle uscire vive da lì.

Insomma, chiunque può mettersi una corona in testa, ma la regalità non è da tutti: Cersei è morta da poraccia, Margaery da vera regina.

Però c’è qualcosa che manca. Nella furia di far virare la storia così bruscamente verso Danana-La-Regina-Pazza, gli sceneggiatori si sono dimenticati che The Mad Queen ce l’avevano già. Che fine ha fatto la donna che ha fatto esplodere mezza città per salvarsi la pelle e far fuori i suoi avversari? Quella che è morta nell’episodio di oggi era talmente l’ombra di quel personaggio che quasi non sento soddisfazione.