Thursday 27 May 2021

Una lenta lettura

Ho appena finito di leggere The Red Flame, il libro di Karen Elson. Che mi avevano regalato per Natale ed era arrivato giusto in tempo per Capodanno. Oltre cinque mesi e mezzo fa. Duecentoventiquattro pagine di cui buona parte fotografie e le altre stampate in grande e con abbondante interlinea. Iniziato la sera stessa della consegna.
Oh boy.
E, onestamente, non so nemmeno quanto ciò abbia a che fare col fatto che dall’anno scorto ho un “blocco del lettore” – quel fenomeno per cui chi un tempo era un avido lettore non riesce più a leggere nulla. Di sicuro ha contribuito anche quello, ma la verità è che l’autobiografia di una supermodella non è poi la lettura leggera e disimpegnata che ci si potrebbe aspettare.

Il libro me lo sono fatto regalare per diversi motivi: perché nel corso della sua pluriventennale carriera Karen ha lavorato con tutti i miei fotografi preferiti, quindi le foto di accompagnamento ai testi sono fantastiche; perché sono una sua fangirl in generale (curiosamente a partire dalla sua musica, non dal suo lavoro come modella) e mi fa piacere contribuire al successo dell’iniziativa; e perché è una persona davvero fantastica, sempre in prima linea nel cercare di migliorare la società intorno a lei, a partire dal mondo della moda ma continuando anche con ingiustizie sociali più generali.
 
Perché, quindi, ci ho messo mesi per leggerlo tutto? In parte perché per me era diventato un rituale: trattandosi di stampe pregiate, mi assicuravo sempre di avere le mani impeccabilmente pulite e sgrassate in modo da non lasciare tracce mentre lo maneggiavo, e poi contemplavo ciascuna foto con devozione. In parte perché, come ho accennato, è stata una lettura tutt’altro che leggera.
Karen è una donna estremamente resiliente ma ne ha passate tante, a partire dall’essere una outsider a scuola – cosa assurda, perché seriamente, come ti permetti tu, anonima cavalla adolescente coi denti storti di Manchester, di bullizzare The Karen Elson? Dovevi saper già che sarebbe diventata qualcuno! – fino alle angherie che ha subito una volta entrata nel mondo della moda. Agli esordi e non.
Se il mondo della moda vive di oggettivizzazione delle persone, specie delle donne, le modelle sono quelle che subiscono maggiormente questa pressione. Hai letteralmente mezzo centimetro in più rispetto alla taglia sample che sta stretta anche ai manichini? Devi beccarti un disturbo alimentare per tornare “in linea”, altrimenti non puoi lavorare. Leggere di una stanza di pollicioni italiani di mezza età che la trattano come un pezzo di carne tagliato male al mercato è stato davvero snervante, così come apprendere di quante volte la sua sicurezza in viaggio o negli spostamenti sia stata derubricata a fattore di poco conto e lei se la sia dovuta cavare da sola.
Fra l’altro, parlando in generale, si tende ad avere pochissima empatia verso le persone del mondo dello spettacolo – a maggior ragione le modelle, che non solo sono donne, ma non hanno nessun valore oltre la bellezza. Se subiscono pressioni, angherie e maltrattamenti nel lavoro, quasi quasi se la sono cercata in cambio della fama che ne ricavano. E questo è sbagliatissimo, perché fa parte della stessa cultura capitalista di deumanizzazione e sfruttamento dei dipendenti che subisce chiunque, dalle fabbriche ai ristoranti, dagli alberghi ai trasporti, dagli uffici alle passerelle di moda e i set dei film. Scegliere un lavoro legato allo spettacolo o alla moda – lavoro il cui prodotto, diciamolo in chiaro, è l’unica consolazione che abbiamo nelle nostre orribili vite – non significa scegliere di essere abusati, né più né meno che scegliere un lavoro in fabbrica significa scegliere di rischiare di farsi stritolare da qualche macchinario non a norma. Basta con i doppi standard.
 
A parte questo, è stato stranissimo trovare così tante similitudini tra il mio vissuto e quello di una persona di successo che ammiro così tanto. Il bullismo, il body shaming, i dubbi, la sindrome dell’impostore…
Ed è una cosa che non solo mi ispira empatia e mi spinge a voler essere migliore e combattere alcuni pregiudizi internalizzati che ho, ma che mi dà anche un po’ di speranza che, nel mio piccolo, possa trovare la mia fiammella personale, magari verde, e raddrizzare un po’ la mia vita.
Grazie, Karen.

Tuesday 18 May 2021

Idraulicidio 2 – il ritorno

Chi è il povero deficiente che, la notte tra giovedì e venerdì, è rimasto in piedi fino alle quattro e mezza del mattino a guardare il live streaming degli Evanescence perché, tanto, la mattina dopo non aveva nulla da fare e poteva recuperare il sonno?
Naturalmente io.
E chi è che invece è stato balzato giù dal letto perché il termoidraulico ha nuovamente deciso di presentarsi di testa sua a fare i lavori la mattina stessa senza il minimo preavviso?
Ovviamente sempre io.
Francamente, mi sembra che, tra i due, l’unico che si sta impegnando perché non avvenga un idraulicidio sia io.
 
E così, è iniziata la cinque giorni (perché c’era di mezzo il week end) di lavori più esasperante della storia per installare i termosifoni e i relativi tubi dell’acqua calda. Perché il vecchio bacucco e i suoi anziani amici di merenda sono la crew più disorganizzata che ci potesse essere, e invece che partire da una stanza (sempre svuotata in fretta e furia), fare tutto quello che c’era da fare e poi passare alla successiva permettendoci di pulire e rimettere a posto, sono andati in ordine sparso, facendo un po’ qui, un po’ lì, andando avanti e indietro, sporcando una stanza, impolverando l’altra, rompendo lo sgabellino per salire a frugare sui pensili e pure il mio caricabatterie perché maremma impestata, se ti dico di aspettare che il comodino lo sposto io ci sarà un motivo.
La cosa più frustrante di questo loro approccio caotico è che, una volta pulito dietro loro in una stanza, il giorno dopo saremmo stati punto e accapo, perché prima hanno riempito di polvere e calcinacci facendo i buchi, poi hanno smosso quello che era rimasto infilando i tubi, poi hanno trapanato ancora per fissare le staffe, e noi, per tre giorni di seguito, abbiamo dovuto pulire sempre le stesse stanze, perché mica potevamo stare in mezzo alla polvere in tutto l’appartamento, e pure con la domenica di mezzo! Per non parlare poi che, con tutta la grazia elefantesca che hanno, il bel lavoro di imbiancatura che avevo fatto solo l’anno scorso è bello che andato.
 
Oh, e, fra l’altro, parlando di buchi nel muro, mica ‘sti tre imbecilli mi sbagliano di dieci centimetri buoni l’altezza dei tubi che dallo sgabuzzino entrano in camera mia? Nonostante si potessero regolare con l’altezza del tubo del gas che avevano installato la volta prima?! Sul serio, mi hanno trapanato un cratere nel muro per nulla, poi l’hanno dovuto richiudere a sputo e rifarlo nel posto giusto perché, oltre a essere orribili, i tubi a quell’altezza si sarebbero sovrapposti al cassettone dell’avvolgibile! Ma si può essere più imbecilli?
 
Di buono, in tutto ciò, c’è solo che ho avuto i miei momenti in cui sentirmi super intelligente.
Il primo perché sui tubi bianchi in PVC c’era un’orribile stampa in nero con vari dettagli tecnici, che i tre babbioni ovviamente non si sono premurati di mettere rivolta verso il muro. La Mater si stava già disperando per quanto brutte fossero le scritte, ma io mi sono ricordato di tutti i video che ho visto su PoppenAtelier e mi sono detto che se l’acetone va bene per togliere le facce stampate sulla plastica delle bambole, probabilmente avrebbe funzionato anche con le scritte sul PVC, e così è stato. Parte delle pulizie ha compreso quindi passare il cotone debitamente imbevuto sui tubi, lasciando le scritte solo su quelli dello sgabuzzino in caso servano un domani.
Il secondo perché l’aspirapolvere aveva improvvisamente iniziato a malfunzionare. Non si faceva in tempo ad accenderlo che subito si illuminava la spia del flusso d’aria insufficiente, nonostante avessimo cambiato il sacchetto due settimane prima dopo i lavori precedenti.
Col terrore che qualche calcinaccio aspirato avesse rotto qualcosa, mentre la Mater non c’era mi sono messo a fare diversi testi, scoprendo che la spia si accendeva solo quando tutto era chiuso e installato correttamente. Senza tubo, si accendeva dopo un po’; con lo sportellino del sacchetto aperto non si accendeva; senza sacchetto, che pure era mezzo vuoto, nemmeno. Sono così giusto con acume alla conclusione che il problema fosse che la polvere della muratura fosse più densa di quella normale (infatti l’aspirapolvere pesava uno sproposito) e che quindi ne bastasse molto meno per ostruire il passaggio dell’aria e far credere ai sensori che fosse troppo pieno per operare. Voilà, problema risolto.
Altro che questi imbecilli che non fanno altro che crearne di nuovi.

In ogni caso, mancano solo l’installazione della caldaia (in balcone, e per la quale non dovrò essere svegliato nuovamente la mattina), il collaudo e messa in funzione dell’impianto, e la sistemazione dei tubi dell’acqua calda, che non si capisce come avverrà. Fortunatamente, per nulla di ciò dovremo più svuotare l’intera casa senza preavviso. E francamente, quando avremo finito suggerirò caldamente alla Mater di cercare un’altra ditta per la manutenzione; non che serva molto convincimento, pure lei in ‘sti giorni è stata a tanto così da un bell’idraulicidio.

Thursday 13 May 2021

La rivalsa

Oggi ho incontrato la mia professoressa di italiano e latino del biennio proprio sotto casa mia. Ci ho impiegato un attimo a riconoscerla con la mascherina, mentre lei, una volta che l’ho salutata, è andata a colpo sicuro: nome e cognome, sezione, anno in cui è stata la mia insegnante. Che, detto francamente, è stata una grande rivalsa dopo l’incidente del mese scorso.
E a dirla tutta, mi ha fatto piacere che non solo si ricordasse di me, ma che il ricordo fosse buono. Del resto, tolta la primissima versione, sono sempre stato uno studente da nove e dieci in latino. E sono anche un po’ sorpreso del fatto che pure io la ricordi con affetto, nonostante di primo acchito non mi venga molto di buono da dire sul corpo docente del liceo. Certo, un po’ mi brucerà sempre quell’8- alla prima versione di latino, specie il meno dovuto a un errore che non avevo fatto, spesso faceva delle freddure agghiaccianti, e oggettivamente era un po’ noiosa quando leggeva i Promessi Sposi, ma ha avuto anche tanti bei momenti con noi. Come dimenticare il suo ritornello, “Come si fa a capire con quale dei significati tradurre una parola? Dal connnnnntesto”, con tanto di mani parate davanti? O ancora, l’intramontabile: “Vis. Roboris. Robori. VIM, come il detersivo per pavimenti”.
E comunque, è stata una professoressa severa, sì, con la manica strettissima per i voti, ma che non si è mai tirata indietro dal riconoscere il valore di uno studente.
A parte quell’8- alla prima versione che… ugh.

No, allora, la frase era qualcosa tipo: “La Grecia non è una terra molto feconda, ma è bellissima per…” e lì c’era “clarae memoriae”, che io ho tradotto come “famosi monumenti” perché il quarto o quinto significato di “memoria, memoriae” era proprio “monumento”. Ma no, secondo la prof, la Grecia è una terra bellissima per le famose memorie. Come fa una memoria a essere famosa? “Monumento” era una traduzione corretta e pure più appropriata dato il suo adorato connnnnntesto.
 
Vabbè. Anche se questo rancore non mi abbandonerà mai come tutti gli altri, è piccolo (specie paragonato a quello che nutro per altri insegnanti) e non preclude i buoni ricordi che ho di lei. Ed è bello vedere che la parte positiva è ricambiata.
 
Per inciso, sono diventato molto bravo a mentire sui motivi della mia situazione occupazionale: è bastato ritoccare un po’ la timeline e fare finta che la vantaggiosissima offerta fosse sfumata a causa del covid e non perché il capo mi ha letteralmente ghostato e da allora sono troppo ansioso per riprovare a mettermi in gioco. Ma francamente, mi occuperò in un altro momento del disagio che mi dà parlare della mia vita attuale alla gente che mi aveva conosciuto fresco e promettente: per ora preferisco crogiolarmi nel fatto che la babbiona di storia e filosofia sia stata un’eccezione, non la regola.

Thursday 6 May 2021

Idraulicidio

Odio le cose fatte all’ultimo minuto. A parte il tempo materiale per organizzarsi e farle nel concreto, gradisco avere anche quello per prepararmi psicologicamente ad affrontarle. Quindi il fatto che il termoidraulico sia passato direttamente stamattina alle nove e mezza per informarci che sarebbe venuto col fratello a trapanare i muri per installare le condutture del gas oggi stesso alle due del pomeriggio mi ha un filino mandato in bestia.
 
Per contesto, in Merilend non c’è mai stata una rete centrale del gas e tutt’oggi, nell’anno del Signore 2021, campiamo ancora con le bombole. Molti palazzi, come il mio, non hanno nessuna forma di riscaldamento, né centralizzato né dei singoli appartamenti. Dato che finalmente dovrebbero portare la fornitura, abbiamo deciso che anche basta patire il freddo o rischiare di trovarci con la bombola vuota rigorosamente nel week end o durante le feste: contattata, la società di erogazione per mettere in moto l’iter di allaccio ci ha poi consigliato una ditta termoidraulica che si occupi dell’installazione dell’impianto nell’appartamento, e noi abbiamo dato loro retta.
Ebbene, la “ditta” termoidraulica, con sede a Milano “dove questi lavori sono comuni, quindi sanno quello che fanno”, qui da noi è rappresentata dall’anziano (teoricamente pensionato) padre del titolare, età compresa tra quelle della Mater e del Procreatore, e da tre altrettanto vetusti parenti / amici di merende / salcazzo chi. Anziano padre che, per l’appunto, è piombato dal nulla e ha unilateralmente deciso che oggi iniziava i lavori, incurante del fatto che ieri la Mater si sia fatta la prima dose di Moderna e oggi stia una pezza (“Signora mia, anch’io ho fatto la prima dose ieri, ma ho preso un’aspirina e sono venuto lo stesso”, ma chi te l’ha chiesto, prenditelo, un giorno di malattia!).
E quindi, sveglia inaspettata sul presto per me, che ovviamente mi sono dovuto sobbarcare l’intera operazione di svuotamento delle tre stanze in cui passerà il tubo, ovvero la cucina, proprio sopra i pensili, lo sgabuzzino, che è praticamente la tasca multidimensionale di Doraemon, e, wait for it, camera mia! Il che significa che ho dovuto svuotare l’armadio affinché fosse abbastanza leggero da spostarlo, e avrò per un paio di giorni il mio spazio personale violato e sottosopra, col letto in mezzo (perché l’angolo su cui trapanano è proprio quello), la polvere e quant’altro. Ora, questo aveva decisamente bisogno di preparazione psicologica da parte mia.
Per non parlare, appunto, del fatto che, con un briciolo di preavviso, avremmo svuotato le aree interessate con calma in due, tre, anche quattro pomeriggi invece che fare la maratona.

Al momento, comunque, sono appollaiato in un salotto stracolmo di cianfrusaglie, con la Mater che, ripresasi almeno un po’ dai sintomi vaccinali, si è messa furiosamente a pulire la muffa che abbiamo scoperto sul retro dei pensili (nuovi!), e cerco con tutte le forze di non compiere un idraulicidio perché decisamente avevo altri piani per oggi, cosa che non sarebbe successa se quel benedetto signore si fosse degnato di mettersi d’accordo con noi!
Maremma impestata.
Adesso non mi resta che aspettare che levino le tende per dedicarmi a una pulizia a fondo e rilavaggio dei pavimenti, ché, francamente, col cavolo che lascio che se ne occupi la Mater col braccio dolorante. Speriamo solo che non si aggiunga anche il sangue del termoidraulico: si impasterebbe con polvere e calcinacci, e sarebbe un incubo da lavare via.

Monday 3 May 2021

Resurrezione

Da oggi siamo in zona arancione; dopo tanti mesi in cui ho messo il naso fuori casa il meno possibile, solo quando costretto e con l’ansia sempre in agguato, questo pomeriggio sono uscito in tutta tranquillità per un totale di un’ora e dieci più quarantaquattro minuti più cinquantacinque minuti, ovvero il tempo di dare l’ascolto divisibile per cinque, quello durante il quale non voglio essere disturbato o interrotto, a tutte le playlist che sto sentendo in questo periodo.
 
Mentre ero fuori, mi sono reso conto che la vera differenza, il motivo per cui sono stato così tanto fuori casa, non è però il colore della zona, quanto il fatto che il papà di Giulia mi ha riparato l’iPod. Di nuovo.
Facendo una rapida ricerca tra i post più recenti mi sono accorto che, a differenza della volta che me l’aveva ammazzato la tempesta tropicale, stavolta non avevo scritto nulla a riguardo: questo perché la morte era avvenuta di vecchiaia l’anno scorso durante il silenzio stampa dovuto al primo lockdown. Che è poi il motivo per cui non mi sono attivato prima a spedirlo e farlo riparare: logistica nel caos più completo, quindi chissà quando sarebbe arrivato lì, e quando sarebbero arrivati i pezzi di ricambio, e quando sarebbe tornato da me, e comunque non dovendo uscire non era una situazione così urgente.
Poi le cose si sono complicate, è vero, e quando il lockdown è finito più che non aver bisogno dell’iPod perché tanto non uscivo avevo iniziato a non uscire perché avevo bisogno dell’iPod, ma c’è stato il gran casino delle spedizioni di cui anche il mio pacco è stato vittima, poi non sapevo se magari sarei tornato a Trieste a breve, poi sono iniziati i problemi del Mac e onestamente non avevo testa di preoccuparmi anche d’altro, e siamo arrivati a ora. Tra spedirlo, aspettare giustamente che la coda di lavoro del papà di Giulia si smaltisse, poi l’arrivo dei pezzi di ricambio, poi la spedizione, l’iPod è tornato redivivo a casa lo scorso giovedì, giusto in tempo per il ritorno della zona arancione.

Altro motivo per cui non avevo scritto nulla è che a questo giro non ho avuto un attacco d’ansia come la volta della tempesta perché la causa della morte era palese, ovvero la batteria stravecchia. Negli ultimi tempi durava una mezz’ora se andava bene, il logico passo successivo era smettere di funzionare del tutto. A ben vedere, l’iPod non era nemmeno morto, era semplicemente in coma, e una volta stabilito che la batteria era rintracciabile, ero piuttosto ottimista che sarebbe stato possibile resuscitarlo. In effetti, quando è arrivato aveva ancora tutte le mie canzoni dentro e perfino in memoria gli ultimi ascolti fatti prima che svenisse. Ciò non significa che non avessi oltre tre migliaia e mezza di tracce da sincronizzare, tra aggiunte, copertine aggiornate, discografie riorganizzate e tutto ciò che intercorre nel giro di un anno in una libreria musicale maniacalmente tenuta in ordine come la mia.
(Per inciso, sì, a quanto pare tutti i miei prodotti Apple scivolano sulle batterie… dopo circa un decennio. Il resto funziona senza problemi.)

Comunque, la resurrezione non è stata solo dell’iPod, ma anche mia. Per la prima volta da tanto tempo sono uscito volentieri, senza ansia, senza correre per tornare il prima possibile a casa, senza odiare tutto il mondo intorno a me. Avevo una missione ben precisa – riempire la borsa della Mater su Pokémon Go con i Pokéstop del centro, visto che era rimasta con numeri a una cifra di pokéball e megaball – e l’ho svolta volentieri e con efficienza, approfittando anche di non avere lei fra i piedi che mi interrompe o mi parla sopra la musica ogni cinque secondi per svolgere il mio rituale (ultimamente mi ero ridotto a fare gli ascolti “importanti” alle due di notte dopo che lei va a dormire). Uscire un po’ così, in tranquillità, mi era mancato e ora sono di ottimo umore.
Per inciso, è stata una coincidenza perché era in playlist, ma anche oggi ho ascoltato Coming Up For Air di Siobhán Donaghy come quel pomeriggio di tre anni fa al Parco di Miramare a Trieste. E, proprio come quella volta, sento di aver ripreso a respirare dopo una lunghissima apnea. La lunga apnea di non avere il mio iPod con me.

Saturday 1 May 2021

A Millennial’s love letter to skinny jeans

Giusto oggi, grazie a un video di Mina Le, ho scoperto che c’è una faida tra i milennial e gli zoomer circa la forma dei jeans. Inevitabilmente, un po’ come vent’anni fa era per i jeans a vita alta, la moda è andata avanti e gli skinny sono visti dalle nuove leve come datati, indossati da quelli che ai miei tempi erano chiamati “i grezzi”, ormai un residuo di epoche passate. E a quanto pare la cosa è diventata una vera e propria guerra social con botta e risposta piuttosto brutali da entrambi i campi.
A parte che trovo assurdo che millennial e zoomer lottino tra loro quando c’è il nemico comune che sono i boomer e i vecchi gen-x (o forse non voglio accettare che i gggiovani mi vedano per il vecchio bacucco che sono), mentre ascoltavo le opinioni di Mina, che è una zoomer, mi sono reso conto che il succo del discorso è che gli zoomer hanno verso i jeans skinny lo stesso disturbo da stress post-traumatico che la mia generazione ha verso i jeans larghi e a vita bassa. Ovvero: prova a sopravvivere alle medie e superiori indossando quella roba.
E pur con le differenze del caso, capisco perfettamente il sentimento: in alcune circostanze, i jeans skinny non sono il massimo della comodità – specie se, come per i pantaloni larghi, si tende verso l’estremo del trend. In più, i ragazzini sono mostri, ed essere costantemente esposti al giudizio e ludibrio per quei capi porta inevitabilmente a odiarli.
 
A part quello, però, i jeans baggy degli Anni Duemila sono stati un incubo già solo a livello logistico: la combinazione tra larghezza, mancanza di struttura e vita bassa faceva sì che sui miei fianchi magri non stessero su nemmeno con un miracolo. Il cavallo penzolante peggiorava ulteriormente la situazione, così come le zampe d’elefante, che s’impigliavano di continuo sotto i tacchi delle scarpe e tiravano il tutto ancora più giù. A dare il colpo di grazia, la stupida moda delle cinture militari, le cui fibbie non reggevano nulla, specie stando sempre in tensione all’altezza del bacino, col risultato che la cintura cedeva lentamente e i pantaloni continuavano ad aver bisogno di essere riaggiustati ogni tre secondi. Giuro, se ripenso alle medie e ai primi anni delle superiori, il ricordo è di una lotta costante e continua contro i jeans.

Ma peggio ancora, quei pantaloni brutti, quelle felpe enormi, quelle magliette sformate cadevano malissimo su un corpo che la pressione sociale dei miei coetanei mi aveva insegnato a odiare. Già ero minuto, in tutta quella stoffa inutile scomparivo. E sempre la stessa pressione sociale mi toglieva qualunque alternativa, perché i vestiti stretti erano considerati “grezzi”, da sfigati, se non addirittura – tenetevi forte – da finocchi. Non scherzo, il disprezzo che avevo sentito nella voce di chi una volta mi aveva detto che i pantaloni stretti sono “da frufrù” aveva lasciato un’impressione profonda nel me adolescente, che ancora nemmeno si rendeva conto di esserlo davvero, “frufrù”.

Onestamente, passare ai jeans skinny e, in generale, all’abbigliamento form-fitting è stata una vera rinascita. E non solo perché, finalmente, le nuove taglie più strette mi stavano, ma proprio a livello concettuale. E sì, è concisa con due cose fondamentali: da una parte, con la mia presa di coscienza sulla mia sessualità, quindi sicuramente c’è anche stato un elemento di riappropriazione dei “pantaloni da frufrù”; dall’altra, col mio trasferimento via dalla Sardegna, che mi ha fatto associare quella sensazione di libertà alla nuova moda (per quanto ai tempi fossi più orientato al goth andante che a ciò che succedeva nel “mainstream”).
Ma principalmente era proprio l’idea che quei vestiti mi permettessero di mettermi in mostra senza però esagerare. È significato accettare e celebrare il mio corpo, vedere la snellezza come un punto di forza da valorizzare, non come qualcosa di cui vergognarmi, laddove percepivo la moda loose come un costante nascondermi.
I jeans attillati sono stati il mio momento di empowerment, ed è per questo che li amerò sempre e non intendo rinunciarvi, anche a costo di farmi dare del “grezzo” (o qualunque sia l’equivalente attuale del termine) dalle nuove generazioni. Lascio che abbiano i loro momenti di empowerment sartoriale e mi tengo i miei.